La musica di Bruce Springsteen è una colonna sonora per raccontare gli Stati Uniti. Canzoni di protesta (anche se lui non ama questa definizione) inni generazionali, storie di conflitto, razzismo e ingiustizia.
A 20 anni da “American Skin (41 Shots)” una delle sue hit più amate, è difficile trovare qualcuno in circolazione che sappia cogliere, meglio di lui, lo spirito degli eventi.
Nonostante i tempi tempestosi, l’autore di “Born in the Usa” è ottimista. Come spiega in questa intervista all’Atlantic, gli Stati Uniti sono attraversati da rivolte e manifestazioni.
C’è paura per la pandemia e un senso di incertezza (in certi casi terrore) per le azioni dell’amministrazione. Però «questi ragazzi in strada sono un esempio, un’ispirazione anche per me».
I segni di progresso, se li si cerca, si trovano: «Il fatto che non è più accettabile che gli afroamericani siano invisibili» è uno di questi. Il cammino forse procede a rilento, ma continua. A volte può sembrare che «vada a zig-zag» e che ci sia sempre qualcuno che cerca di ostacolarlo. «Ma i tentativi sono di volta in volta più deboli».
Insomma, sono tempi vibranti, dove si mescola speranza e voglia di cambiamento: per accompagnarli ha proposto una selezione di canzoni.
«Per capire meglio cosa succede», spiega il giornalista David Brooks. E arricchire queste giornate.
La prima è “Strange Fruit”, di Billie Holiday.
Scritta da Abeel Meeropol nel 1937, racconta i linciaggi negli Stati del Sud. La cantante la incide nel 1939 in mezzo alle polemiche. La Columbia, la sua etichetta, non la vuole distribuire. «E allora si rivolge a una altra casa discografica».
La seconda è “The House I Live In”, nella versione di Paul Robeson.
«Un tipo interessante», dice. Colpito dal maccartismo, anti-fascista, tra i primi sostenitori dei movimenti per i diritti civili. Era tra i Lealisti nella Guerra Civile in Spagna, e si guadagnava da vivere con il mestiere da attore e la sua voce da baritono, potentissima. «Anche questa è una canzone scritta da Abel Meeropol, non so bene chi fosse, ma doveva essere il Bob Dylan del suo tempo. Ha scritto cose incredibili».
La terza è “Made in America”, di Jay-Z e Kanye West
Una «canzone bellissima e molto espressiva», spiega. Un intermezzo perfetto per una discussione sul cambiamento sociale, gli anni della presidenza Obama e la nuova primavera di una protesta politica.
La quarta è sua, ed è proprio “American Skin (41 Shots)”
La canzone è stata ispirata dall’uccisione, a opera della polizia, di Amadou Diallo, un immigrato dalla Guinea di 23 anni, avvenuta nel 1999 a New York. Risultato: nessun colpevole.
Il testo, composto prima di alcuni concerti ad Atlanta e New York aveva suscitato un’ondata di polemiche sulla stampa, soprattutto scatenando le reazioni da parte delle associazioni di polizia. «Molti di quelli che la criticavano non l’avevano nemmeno ascoltata», ricorda.
Il senso profondo di quel testo, aggiunge, «è che al centro del nostro problema razziale c’è la paura, prima ancora dell’odio. Quello viene dopo, mentre la paura è istantanea». Sia la madre che dà istruzioni al ragazzino su come tenersi al sicuro, sia il poliziotto che si aggira per le strade, «sono solo due pezzi nella scacchiera delle tensioni razziali, mai risolte da secoli. Ogni anno che passa il conto per questa sospensione diventa sempre peggiore».
La quinta è “That’s What Makes Us Great”, di Joe Grushecky
«Era l’epoca del “Make America Great Again”», ricorda. Un pezzo uscito nel 2017 e che i due hanno cantato insieme, per fare il verso alla nuova presidenza Trump
Infine, la sesta, è “People Have the Power”, di Patti Smith
«Un grande, grandissimo inno. Vorrei tanto averlo scritto io, ma sono contento che lo abbia fatto lei. Non penso che ci sia in giro una canzone migliore per raccontare questo momento»