Ciò che succede a Minneapolis e in altre città americane dovrebbe spaventare anche noi perché racconta l’esito fatale delle diseguaglianze associate alla mancata integrazione di intere comunità, un combinato disposto capace di trasformare in polveriera qualunque concentrazione urbana. Il Vecchio Continente si è sentito finora immune dalla “sindrome americana”. Ha problemi razziali minori, un sistema di welfare e di assistenza più largo, reti famigliari generalmente più solide che temperano il disagio collettivo, e tuttavia dovremmo essere tutti consapevoli che il decennio dei populismi ha abbassato anche da noi il livello di tenuta sociale.
La famosa rabbia delle periferie esiste, non è un’invenzione sovranista: il sovranismo si è limitato a cavalcarla indicando un capro espiatorio, gli immigrati, da ricacciare nella marginalità e nel silenzio.
Ci sono anche da noi mondi dove le persone non hanno né pane, ne’ giustizia, né speranza di ottenerla: le vergognose intercettazioni emerse sui rider di Milano raccontano che nella metropoli più moderna del nostro Paese, per anni, si sono tenuti al guinzaglio esseri umani con la minaccia di ridurli alla fame, come a Calcutta o a Dacca.
Solo pochi mesi fa a Roma abbiamo visto normali cittadini, casalinghe e studenti, alzare fisicamente barricate per impedire l’assegnazione di case popolari a gente che non gli piaceva.
Nei giorni dell’emergenza Covid molte amministrazioni comunali hanno escluso dai pacchi alimentari gli stranieri rimasti senza lavoro, temendo di scontentare i loro elettori con atti di generosità ritenuti “non dovuti”.
La domanda da farci è: cosa sarebbe successo, in Italia, davanti a un caso George Floyd? Davanti a un video di nove minuti che mostrava una persona inerme lentamente soffocata durante un fermo di polizia?
È probabile che avremmo visto anche noi assalti ai commissariati, commessi da italiani o da immigrati a seconda della nazionalità della vittima. Magari non viviamo sul bordo di un enorme vulcano come gli Usa, con i suoi 36 milioni di disoccupati e i suoi storici problemi di razzismo, ma c’è un Vesuvio anche dentro i nostri confini, anche se troppo spesso la politica si rifiuta di guardarlo.
La crisi collegata all’epidemia ha già cominciato a disegnare un nuovo scenario di contrapposizioni tribali. Ci si preoccupa molto del ritorno sulla scena di uno squinternato capopopolo come il generale Antonio Pappalardo, ma il suo nuovo successo è solo il segnale più vistoso della modifica del clima emotivo del Paese, un cambiamento che per qualcuno è un problema ma che molti vivono come un’opportunità.
Persino alcuni governatori ci si sono tuffati dentro, resuscitando l’antico scontro fra settentrionali e meridionali con la speranza di usarlo a fini di consenso: uno spettacolo senza precedenti, che ci rivela quanto il populismo abbia contagiato le nostre classi dirigenti e abbassato la soglia della responsabilità anche dove sarebbe obbligatoria.
Non siamo l’America, ma i fatti americani dicono qualcosa anche a noi. La lotta alla crescita delle diseguaglianze e l’integrazione delle minoranze non sono propositi da anime belle, programmi irenici buoni per gli aspiranti santi ma inutili nel governo della realtà: sono le uniche soluzioni possibili per proteggere dal caos le nostre vite ed evitare di trasformare le nostre città in polveriere esposte a ogni fiammata.
E se c’è un momento per rivendicare con forza questa via, è esattamente questo: ora, prima che la crisi legata all’epidemia aumenti ulteriormente le distanze e ci renda un po’ più simili a Minneapolis e lontani dal meglio del modello europeo.