Il ritiro delle truppe guidate da Khalifa Haftar, che assediavano Tripoli dall’aprile 2019, è molto probabilmente un decisivo punto di svolta nella guerra civile libica.
Haftar, che comanda il Lybian liberation army (Lna), autoproclamato esercito di liberazione dal governo di Tripoli guidato da Fayez al Serraj e riconosciuto dalle Nazioni unite, risulta molto indebolito dalla sconfitta militare, tanto da essere costretto, secondo quanto riportano vari analisti, ad abbandonare Sirte, città sulla costa fondamentale come testa di ponte per mantenere una presenza in Tripolitania, la parte orientale del paese.
L’assedio, portato avanti per più di un anno, aveva intensificato il carattere internazionale della guerra civile libica: da un lato le forze di Tripoli, sostenute apertamente dalla Turchia, dall’altro il Libyan liberation army, armato da Emirati arabi uniti, Egitto e Russia.
Soprattutto, il coinvolgimento di attori esterni al paese, e quindi poco disposti a rischiare direttamente i propri militari, ha trasformato la Libia nella «più grande guerra di droni del mondo» secondo la definizione dell’ex inviato speciale dell’Onu nel paese, Ghassan Salamé, che ha lasciato il suo incarico lo scorso marzo ufficialmente per motivi di salute, ufficiosamente perché frustrato dagli scarsissimi passi in avanti nel processo di pace.
Fino all’autunno del 2019 Haftar sembrava in vantaggio rispetto al governo di Tripoli, costretto a difendere la capitale casa per casa, anche grazie al sostegno di diverse centinaia di mercenari della compagnia Wagner, direttamente controllata dal Cremlino. Il lungo assedio ha tuttavia logorato le sue forze, e ha permesso alla Turchia di entrare con decisione nella partita, inviando a partire dall’inizio dell’anno soldati, armi e rifornimenti. Un intervento che ha consentito di ribaltare la situazione.
Secondo Arturo Varvelli, direttore dell’ufficio di Roma dello European Council on Foreign Relations, la sconfitta «mette una pietra tombale sulle velleità di Haftar di controllare la Libia a seguito di una campagna militare. Si è dimostrato un comandante poco capace e la sua strategia aggressiva gli ha messo contro la popolazione della capitale, bombardata per mesi dalle sue truppe».
Il fatto che la svolta sia avvenuta grazie all’impegno militare dimostra come la posizione italiana (ed europea), ancorata alla dichiarazione di principio «cerchiamo una soluzione politica e non militare», abbia contribuito a rendere marginale il ruolo di Roma e Bruxelles.
La Turchia, al contrario, non ha mai nascosto il suo supporto al governo guidato da Fayez al Serraj, e può raccogliere oggi i dividendi del suo investimento.
Tuttavia, il cambiamento di rapporti di forza non è di per sé sufficiente a garantire una pacificazione della Libia: «Non sappiamo che tipo di accordo esista tra la Turchia e la Russia, anche se le due capitali parlano ed evitano, per esempio, di confrontarsi direttamente sul terreno. Scambiare questo coordinamento per una nuova “pax libica” sarebbe tuttavia un errore: la guerra entra in una nuova fase, non è finita, e gli attori coinvolti continuano a essere tanti», dice Varvelli.
Oltre a dover fare i conti con le ambizioni di Egitto ed Emirati arabi uniti, un accordo tra Russia e Turchia non necessariamente reggerebbe alla pressione degli altri attori internazionali e alle ambizioni delle varie fazioni libiche.
Wolfram Lacher, analista dello German Institute of International and Security Affairs, ricorda in un suo breve saggio pubblicato la settimana scorsa che «l’intervento di Russia e Turchia pone degli ostacoli a un accordo politico. In un eventuale negoziato le fazioni libiche domanderebbero il ritiro degli elementi stranieri, inclusi i mercenari russi e siriani, i droni emiratini, i caccia russi, e il personale militare turco. In più, un accordo che ristabilisse un singolo governo, un singolo comando militare e una banca centrale diluirebbe la presenza di Ankara e di Mosca. Un governo unico alla fine riuscirebbe a espellere ogni presenza militare straniera. L’interesse di russi e turchi è congelare il conflitto, non risolverlo».
Ecco perché, se finora la capacità e l’investimento militare erano cruciali per risolvere la situazione di stallo e per avere voce in capitolo su eventuali negoziati, la nuova fase necessita di una strategia politica. Il problema, per l’Italia e per l’Europa, è che l’influenza garantita dall’intervento militare è fondamentale per portarla avanti.
Sempre che le capitali europee vogliano davvero riprendere seriamente in mano il dossier, visto che, come ammesso dal ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas, in una conferenza stampa con il suo omologo Luigi Di Maio: «Il coronavirus ha reso tutto più complicato».
In più, non sembra che le potenze che sostengono Haftar abbiano deciso di abbandonare la Libia all’influenza turca. Può accadere che si affidino a un nuovo leader, visto che Haftar si è dimostrato incapace di garantire i loro interessi, ma anche questo non comporta di per sé una risoluzione pacifica e condivisa del conflitto.
Per ora il governo italiano non ha dato elementi per poter affermare che il dossier è tornato prioritario, né indicazioni sul futuro della missione militare a Misurata, dove sono accampati 300 soldati dell’esercito a protezione di un ospedale militare.
Il presidente libico Fayez al Serraj ha chiesto all’Italia, nel corso di una telefonata con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, un aiuto per lo sminamento delle aree riconquistate dalle forze tripoline.
Potrebbe essere un appiglio per tornare ad avere una presenza nel paese, soprattutto se supportata da una strategia politica, che però, al momento, risulta assente.