L’Italia ha perso ogni possibilità di influenza in Libia, ma in preda al dilettantismo di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio non sa neanche prenderne atto. Il peso di Roma nelle due “capitali” libiche, Tripoli e Bengasi, è ormai pari a zero, ma né il premier né il titolare della Farnesina danno segno di essersene accorti e continuano sulla linea «no a soluzioni militari, sì a una soluzione politica».
Linea che semplicemente non ha più senso per l’ottima ragione che tutto si sta decidendo sul suolo libico solo e unicamente con la forza dispiegata di intensissimi scontri militari. Unica scusante per i due politici italiani è la condivisione europea della loro astratta posizione politichese.
Ma è una magra considerazione a fronte di una partita che vede Italia e Unione europea ininfluenti. Al massimo al Fayez al Serraj, il premier che controlla la Tripolitania ed è sostenuto dalle Nazioni Unite, ci chiede di aiutarlo a sminare Tripoli e a sostenere la Guardia Costiera libica, nulla più, pesantemente deluso per il nostro rifiuto alle sue pressanti richieste di appoggi militari.
Quello che accade sul suolo libico viene deciso ad Ankara, al Cairo, ad Abu Dhabi (e in misura minore a Mosca, ma neanche questo aiuto parziale e condizionato è compreso a Roma e Bruxelles).
Grazie al determinante aiuto di Recep Tayyp Erdogan, e alla superiorità di strategia militare e di mezzi della Turchia rispetto a quelli egiziani, emiratini e anche russi, le forze fedeli al governo di al Serraj hanno sviluppato negli ultimi due mesi una formidabile controffensiva, per ora vittoriosa.
Non hanno solo riconquistato dalle milizie di Khalifa Haftar, uomo forte della Cirenaica, il controllo completo di tutta l’area metropolitana di Tripoli, hanno anche eliminato le truppe di Haftar da tutta la linea che va da Tripoli alla Tunisia con la battaglia di Zawiya, rompendo la morsa che stava soffocando la capitale.
Non hanno solo riconquistato i fondamentali aeroporti di Mitiga a Tripoli e di al Watiya a sud est della capitale (che Haftar controllava dal 2015) ma hanno anche iniziato e concluso l’attacco contro l’esercito del generale sul centro strategico di comando a Tripoli, indispensabile ad Haftar, di Qasr Ben Ghashir su due assi.
Il primo è quello di Sua Al Ahad e l’altro è l’aeroporto internazionale di Tripoli. Le truppe di Haftar si sono asserragliate all’interno di quel quartier generale avanzato, ma hanno dovuto abbandonarlo e ora sono asserragliate nel nodo fondamentale per Haftar di Tarhuna, con poche possibilità di resistenza. Una vera e propria rotta di Haftar, come notano ormai tutti gli analisti.
I due contendenti sono impegnati allo spasimo nel farsi la guerra e semplicemente non possono pensare a un accordo politico, perché al Serraj sta avanzando su tutti i fronti e specularmente Haftar li deve difendere allo spasimo, pena una rotta disastrosa a cui sarà costretto se le forze di Serraj riusciranno, come pare, a conquistare Tarhuna sotto assedio da due settimane.
Secondo molti analisti, la stessa recentissima fornitura da parte di Putin ad Haftar di sei Mig-29 e due Sukhoi-24, partiti dalla base di Hmeimim (dopo avere riverniciato le insegne) scortati nel volo di trasferimento da due intercettori Su-35, avrebbe solo lo scopo difensivo di impedire l’avanzata delle forze di al Serraj verso la Cirenaica e non un fine offensivo su Tripoli.
La stessa speranza in queste ore espressa dalla Missione di supporto dell’Onu in Libia (Unsmil) di una tregua delle armi proposta dalle Nazioni Unite riguarda solo una sospensione dei combattimenti. Nulla a che fare con una sistemazione politica di un ormai intricatissimo e sanguinoso contenzioso che ha per posta chi comanda, non solo in Libia.
Il capovolgimento delle sorti della guerra (nel novembre del 2019 Tripoli stava per cadere nelle mani di Haftar) è dovuto all’impegno maggiore della Turchia, che ha molto investito in uomini e mezzi, rispetto a quello della Russia e dello stesso Haftar. Determinanti e vincenti nelle varie battaglie recenti si sono dimostrati i droni-bombardieri Bayraktar T B2 Ucav (prodotti dal genero di Erdogan) che hanno distrutto in massa i costosissimi sistemi d’arme antiaerea russi Pantsir (costo: 13 milioni l’uno) forniti ad Haftar da Putin.
Vincenti sul terreno si sono dimostrati poi i miliziani siriani e turcomanni (tra i 3 e i 5.000) inviati ad al Serraj da Erdogan, a fronte dei circa duemila, forse tremila, mercenari della compagnia privata Wagner inviati ad Haftar da Putin e agli altrettanti mercenari ciadiani e sudanesi, assoldati dallo stesso Haftar (e pagati con rubli russi e dollari egiziani ed emiratini).
Insufficienti si sono dimostrati i bombardamenti emiratini e russi sulla popolazione civile di Tripoli e sui militari di al Serraj. Nettamente superiore, infine, la sofisticata strategia militare, molto paziente, ma travolgente, attuata sul campo dal generale turco Irfan Tur Ozsert, comandante in capo della controffensiva tripolina, rispetto a quella di un Khalifa Haftar (comandante in capo effettivo delle sue forze) che peraltro ha sempre perso tutte le guerre che ha combattuto (a partire da quella in Ciad nel 1987, per conto del suo allora sodale Muammar Gheddafi).
In questo contesto, l’Italia di Conte e Di Maio sconta due errori: il primo, enorme, consiste nel non avere compreso che il 4 aprile 2019 la crisi libica ha radicalmente cambiato natura. La decisione di Haftar di quel giorno di “conquistare Tripoli in due giorni” e di scatenare le sue forze militari non era solo sua, ma era ispirata è dettata da scopi ben più alti e complessi dei suoi padrini egiziani, sauditi ed emiratini.
Quella nuova fase della crisi libica ha chiuso la fase durata otto anni caratterizzata dai rapporti intricati tra le 140 tribù libiche e le 250 milizie locali (sui quali Marco Minniti era un maestro nell’agire e tessere disegni), per assumere le inedite caratteristiche di uno scontro tra due componenti del mondo sunnita tese a conquistarne l’egemonia nei paesi musulmani nel Mediterraneo, in Africa e Asia.
Da una parte il blocco costituito da Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (sotto banco appoggiato dalla Francia), alleato della Russia, determinato a foraggiare Khalifa Haftar per contrastare con ogni mezzo i Fratelli Musulmani, che sono la spina dorsale delle forze che sostengono il governo di al Serraj.
Dall’altra parte, una Turchia neo ottomana (appoggiata dal Qatar) che con Erdogan si sta radicando capillarmente in tutta l’Africa orientale (dopo essersi espansa in Siria), e che intende fare della Libia il secondo caposaldo della presenza dei Fratelli Musulmani sulle sponde del Mediterraneo.
Dunque, non più una dinamica locale, ma una guerra per conquistare e consolidare l’egemonia nel mondo sunnita e in un Mediterraneo nel quale i Fratelli Musulmani, schiacciati in Egitto, controllano pur sempre il governo del Marocco e sono fortissimi sia in Tunisia con Ennhada che, con discrezione, in Algeria.
Non comprendere questa dinamica ha portato al nulla di fatto della Conferenza di Berlino del 20 gennaio 2020, nella quale l’Italia e l’Unione europea, come Angela Merkel, hanno sopravvalutato il peso di Putin su Haftar, un Putin che è suo alleato ma anche estraneo alle dinamiche inter sunnite che invece sono determinanti.
Italia ed Europa hanno così continuato a cercare una “soluzione politica”. Soluzione impossibile da perseguire, appunto perché la posta in gioco va ben oltre la Libia, ma riguarda chi esercita l’egemonia nel mondo sunnita nei vari paesi del Mediterraneo.
Il secondo errore commesso da Conte e Di Maio ha riguardato la falsa percezione di un Haftar cavallo vincente nella crisi libica. Solo così si spiegano il mieloso comunicato della Farnesina il 17 dicembre 2019 al termine dell’incontro di Di Maio con un Haftar che disse al ministro grillino: «Lei può essere orgoglioso di sé stesso, può essere l’esempio per tutti i giovani libici, un modello».
Così come si spiega la gaffe di Conte che ha incontrato per primo e con gli onori di un capo di Stato Haftar a Palazzo Chigi l’8 gennaio 2020, provocando l’immediata cancellazione dell’incontro con Al Serraj che avrebbe dovuto avvenire subito dopo.
Sbagliata l’analisi delle caratteristiche della crisi, sbagliato il cavallo libico dato per vincente dal duo Conte e Di Maio. E ora l’Italia non conta più nulla nella crisi libica.