Una notte di dicembre del 1979 mi alzai dal letto e andai sotto l’albero di Natale ad aprire e richiudere tutti i regali impacchettati (mai stata paziente, mai amate le sorprese). L’unico che ricordi ce l’ho ancora: l’edizione Oscar Mondadori, in tre volumi per un totale d’un migliaio di pagine, di Via col vento.
Non riesco a immaginare un tempo in cui il film da Via col vento non passasse alla tv italiana una volta l’anno; il ’79 – quarant’anni dopo l’uscita nei cinema americani, trenta dopo quella nei cinema italiani: allora gli esseri umani avevano altro da pensare e non smaniavano per le distribuzioni contemporanee come noi viziati del secolo successivo – fu la prima volta in cui, settenne, lo vidi. Com’è normale, ne rimasi incantata. Com’era normale allora, nessuno si chiese se il libro fosse adatto a una bambina.
Gli anni successivi li passai a liquidare qualunque amichetta vedesse per la prima volta Via col vento alla tele: che ne sai, tu, che non hai letto il libro, e non sai che nel film non c’è l’unico personaggio maschile decente, tagliato per far rientrare mille pagine in quattro ore di film.
Una ventina d’anni dopo, cambiai oggetto d’arroganza: un’americana m’aveva fatto scoprire Notes from David O. Selznick, l’epistolario del produttore in cui i tagli e i non tagli vengono ordinati a sceneggiatori trattati peggio della servitù, e io avevo deciso che era il più favoloso dietro le quinte di tutti i tempi: che ne sai tu che non l’hai letto, che ci parlo a fare con te.
(Nota a margine per sospirosi nostalgici che «ah, i produttori appassionati d’una volta, mica mercanti come quelli d’adesso»: Selznick aveva comprato i diritti del libro senza leggerlo. Poi ovviamente si mise in pari; più che in pari: divenne il più fanatico conoscitore dei dettagli del romanzo – tuttavia l’aveva comprato avendo letto una paginetta di sinossi. E i dati di vendita, probabilmente).
Negli Stati Uniti i canali generalisti non mandano un film di quattro ore, e quindi Via col vento era stato inserito nell’archivio di Hbo Max, la nuova piattaforma appena lanciata da Hbo (è presente su molte altre piattaforme americane a pagamento, da quella di Amazon a quelle di catene di sale cinematografiche quali Fandango e Amc). Poi lunedì il Los Angeles Times ha pubblicato un editoriale (tutti i guai di quest’epoca derivano da qualche editoriale, ci avete fatto caso?).
L’ha scritto John Ridley, premio Oscar sei anni fa per 12 anni schiavo (anche lo sceneggiatore che firmò Via col vento, uno degli alcuni milioni di sceneggiatori che si erano avvicendati a scriverlo, vinse per esso l’Oscar, ma non lo ritirò: nel frattempo era morto. Non sareste sopravvissuti alle lettere di Selznick neanche voi).
L’editoriale dà abbastanza il voltastomaco, tra i trucchi retorici men che elementari e la passivoaggressività. Nel 1989 Nanni Moretti, presentando al festival di Venezia Palombella rossa, disse che «col tema importante si vince sempre, ricattando il pubblico».
Nel 2020 Ridley scrive che per carità, lui non crede nella censura, ed è un uomo di cinema e quindi sa che ogni film è un’istantanea del proprio tempo, epperò. Epperò è un film che ignora gli orrori della schiavitù (il ricatto del peccato originale americano), epperò nobilita i secessionisti proprio mentre tutti ci chiediamo come combattere l’intolleranza (il ricatto di George Floyd), epperò sarà pure una richiesta impegnativa toglierlo dalla piattaforma ma non quanto la richiesta dei vostri figli che vogliono marciare contro il razzismo (il ricatto dei bambini), epperò se proprio dovete tenerlo sulla piattaforma almeno metteteci delle scritte che dicano che è un film che promuove valori sbagliati (il ricatto delle etichette «non bere» sulla candeggina, che già Ricky Gervais indicò come il segno della dittatura della scemenza nella nostra società).
Naturalmente l’ha avuta vinta (avevate dubbi, in questo momento di idiozia collettiva?). Su Hbo Max non si potrà più vedere Via col vento, per un po’: lo reinseriranno tra le loro offerte più avanti, hanno comunicato, accompagnato da «un dibattito sul contesto storico». Vi ricordate di quando la tv italiana decise di trasmettere Sex and the city, ma accompagnato da un dibattito in cui Anna Pettinelli ci spiegava cosa fossero i vibratori? Ecco: sono quindi almeno vent’anni che il pubblico è considerato bisognoso della balia, casomai pensassimo che la dittatura della scemenza fosse cominciata l’altroieri.
Naturalmente Ridley non l’ha avuta vinta su questo capriccio perché è un professionista autorevole. Non l’hanno assecondato per nessuna delle qualifiche – regista, sceneggiatore, romanziere, premio Oscar – che il Los Angeles Times ha apposto vicino alla sua firma. L’hanno assecondato perché alla multinazionale dell’intrattenimento non costa niente e la posiziona dalla parte dei sensibili, e perché è nero; nessuno che non voglia trovarsi dalla parte sbagliata della lapidazione negherebbe una richiesta a una minoranza maltrattata, in questo momento storico. La ragione per cui lo so è che sono una donna, e in quanto tale considerata una minoranza maltrattata: è un ottimo momento per approfittarsene.
Chissà cosa penserebbe di questa vittoria Hattie McDaniel, che fu la prima nera a vincere un Oscar per il ruolo di Mammy. Chissà cosa ne penserebbe Clarke Gable, il ministro Provenzano dell’epoca, che minacciò di non prender parte alla cerimonia di premiazione se non avessero permesso a Hattie di partecipare (era il 1940, e negli Stati Uniti c’erano ancora leggi segregazioniste che impedivano ai neri l’accesso a certi posti. Quindici anni dopo, Marilyn Monroe dovette impegnarsi a sedere in prima fila tutte le sere perché una sua amica nera fosse fatta cantare in un prestigioso club di Los Angeles, prima nera a esser lasciata salire su quel palco. Quell’amica si chiamava Ella Fitzgerald, e questa parentesi è per quelli che sostengono che certe minoranze non siano mai state discriminate quanto oggi).
Chissà quanto manca perché il cerchio si chiuda con la protesta dell’ultima categoria ancora non inserita nel paradigma vittimario. Le americane del sud degli Stati Uniti, le proprietarie di piantagioni di cui Rossella O’Hara è il volto più famoso. Rossella che, con violenta appropriazione culturale, Selznick fece interpretare da Vivien Leigh. Un’inglese, perdindirindina.