Va a finire che l’Europa potrebbe aggiustarla Enzo Miccio. Immaginatelo con Carla Gozzi bloccare nei corridoi di Bruxelles la presidente della Commissione e rimbrottarla in coro: «Ursula, ma come ti vesti?», e poi rincarare: «Ma non ti vergogni… sembri pronta a farci da segretaria». L’abbigliamento in politica può essere considerato una naïveté accessoria.
Abbiamo già avuto un ministro degli Interni, Matteo Salvini, che ha trasformato la propria agenda in una Cosplay performance e quell’esperienza ci dovrebbe bastare, potrebbe obiettare qualcuno. Sì e no.
«La moda, al pari di altri simboli, è funzionale alla rappresentazione simbolica del potere e della sua stratificazione all’interno della società», spiega Maria Cristina Marchetti, docente di Sociologia dei fenomeni politici alla Sapienza e autrice di “Moda e politica”, appena pubblicato dalla casa editrice Meltemi.
«Ciò ovviamente non esclude le risorse extrasimboliche di cui il potere dispone, prime fra tutte i beni economici e la violenza, ma le integra».
Le scienze politiche, scriveva Giorgio Fedel in “Simboli e politica”, hanno operato una grande distinzione tra la categoria simbolica, che copre l’area dei sentimenti, dei valori, dell’appartenenza; e la categoria degli interessi economici, dell’utilitarismo.
Sulla linea della rational choice theory e del comportamentismo statunitense, è stata privilegiata la seconda categoria, adottando una visione razionale-strumentale, che considera gli attori politici sempre soggetti razionali che compiono scelte di natura volontaristica, non influenzate dalla dimensione emotiva.
Eppure, continuava Fedel, «è un fatto che la politica abbia componenti simboliche. Valori, discorsi, slogan, bandiere, emblemi, gesti, leader, eroi, cerimonie, musiche, monumenti, ecc. sono tutti simboli politici che riconosciamo subito nella nostra esperienza».
La moda è un simbolo tra gli altri, a volte anzi è stato uno dei più efficaci per reificare un sistema di valori, messaggi, distinzioni, gerarchie, contrapposizioni.
In “Moda e politica” Maria Cristina Marchetti ricostruisce i principali momenti della storia moderna e contemporanea in cui l’abbigliamento è stato centrale nella rappresentazione e affermazione del potere.
Dalle scelte vestimentarie studiate al millimetro di Elisabetta I e Luigi XIV alla stilizzazione della figura umana introdotta della moda nobiliare spagnola, passando per la libertà di movimento che contraddistingueva gli abiti della borghesia.
La moda del potere non ha solo veicolato importanti messaggi politici, ma ha anche influenzato il costume di intere epoche. La Rivoluzione francese è un caso da manuale: per il fermento che la rappresentazione simbolica del potere ha vissuto in quel periodo e per il ruolo centrale assunto della moda.
Un esercito di modiste, produttori di nastri, calzolai e gioielli che prima lavorava per la corte dovette riconvertirsi alle esigenze della Rivoluzione.
Il lusso era abolito, ma bisognava sostituirlo con qualcos’altro di riconoscibile. Balenò l’idea di un costume unico nazionale (presto rigettata: avrebbe minato il principio di libertà), nacquero oggetti simbolici quali la coccarda tricolore e il berretto rosso. Si diffusero persino mode legate all’uso della ghigliottina, come il nastrino rosso portato al collo dalle donne detto á la victime.
L’importanza di un sistema simbolico non è direttamente proporzionale alla forza di una proposta politica, anzi. «Con la caduta delle grandi ideologie», spiega Marchetti, «le distinzioni tra parti politiche si sono affievolite e questi codici simbolici sono serviti ancora di più».
Per averne la conferma basta guardare come vestivano i leader politici italiani del dopoguerra e confrontarli con quelli di oggi: «De Gasperi, Togliatti, Pertini vestivano più o meno tutti allo stesso modo. Sia per il rispetto che avevano nei confronti delle istituzioni, sia perché a contrapporli erano le ideologie, ben chiare agli elettori.
Quando queste sono venute meno si è avvertito il bisogno di ricostruire “artificialmente” quelle contrapposizioni, sottolineandole anche attraverso sistemi di codici simbolici».
Per esempio la felpa e le divise? «L’abbigliamento dell’onorevole Salvini è stato chiaramente studiato e in linea con il messaggio politico che voleva trasmettere. Adottare lo stesso abbigliamento di coloro a cui ti rivolgi e addirittura adattarlo e cambiarlo a seconda dell’interlocutore del momento, mi sembra la traduzione simbolica più chiara del populismo.
È stato lampante nella campagna elettorale per le elezioni in Emilia Romagna, quando alle tradizionali felpe e divise sostituì il completo di velluto a coste, tipico del codice della sinistra».
Quindi, salvo questo esempio di crossdressing, continua a esistere un abbigliamento di destra e uno di sinistra? «L’abbigliamento considerato “di sinistra” ha un’eredità storica molto antica. Quell’uso dei colori, dei tessuti, delle forme viene dal mondo laburista inglese dell’Ottocento, dai capi delle trade unions, e è passato attraverso l’esperienza del Sessantotto.
Tutt’oggi se vediamo un paio di Clarks o una giacca di velluto, le identifichiamo come appartenenti a quel codice. A cui i leader di certa sinistra cercano di restare fedeli. Così come a destra si preferisce un completo rigoroso, espressione del mondo borghese e imprenditoriale. Berlusconi ha sempre indossato solo il doppiopetto».
I politici hanno avuto atteggiamenti diversi nei confronti della mascherina: Nancy Pelosi l’ha fatta diventare un accessorio alla moda, Donald Trump si è rifiutato di indossarla. Non portarla è da scemi più che di destra, verrebbe da dire à la Gaber. «La scelta di Trump si può leggere come un rifiuto della realtà, o una sua personale sfida contro il virus».
«In generale i leader non hanno usata spesso la mascherina, come per trasmettere un’idea di sicurezza, per rassicurare sul fatto che chi stava prendendo decisioni era al sicuro. D’altro canto i giorni di malattia di Boris Johnson hanno mostrato quanto la vulnerabilità fisica di un leader, anche per l’effetto psicologico sui cittadini, sia pericolosa per un paese. In Italia i politici l’hanno utilizzata di più, con l’obiettivo di “dare il buon esempio”».
Che ruolo ha avuto la moda nella politica europea degli ultimi decenni? «In Europa c’è stato un uso sapiente della moda come codice simbolico, portato avanti soprattutto dalle donne. Penso a Margaret Thatcher e Angela Merkel».
«La figura politica di Thatcher, che era quasi sempre vestita del colore del partito conservatore, ha attraversato una profonda evoluzione nel tempo e il suo abbigliamento è cambiato con lei. Dai tratti rassicuranti e tradizionali degli inizi, che la facevano assomigliare a una buona madre di famiglia, è diventata la “Lady di ferro”, vestita sempre con un tailleur di taglio rigoroso che si adattava al dress code maschile.
La Thatcher non è mai stata fuori moda perché era “oltre la moda”, in una dimensione autonoma, lontana dalle mutevolezze della moda. Più simile in ciò all’abbigliamento della casa reale».
Angela Merkel invece? «La Cancelliera si veste sempre uguale: ha creato per sé una sorta di divisa declinabile in tutti i colori possibili. Ha sempre vestito in modo austero, come l’epoca che ha segnato politicamente: non puoi imporre tagli presentandoti ingioiellata».
Le donne italiane in politica invece sembrano aver osato di più. «La politica italiana da questo punto di vista ha segnato un cambiamento importante, riconciliando le donne con la moda. Se osserviamo come vestivano abitualmente Nilde Iotti e Tina Anselmi, non notiamo grandi differenze.
Per assurdo avevano uno stile simile a quello della Thatcher: una specie di divisa istituzionale. Con la Seconda Repubblica le donne hanno cominciato a essere più presenti nella politica italiana, e lo hanno fatto rivendicando il legame storico che esse hanno con la moda, prima nascosto».
Tra i casi più recenti di stile molto personale adottato in contesti istituzionali, l’abito a balze blu elettrico di Teresa Bellanova indossato per il giuramento da ministra al Quirinale. L’ex deputato Daniele Capezzone twittò: «Carnevale? Halloween?». Bellanova rispose: «La vera eleganza è rispettare il proprio stato d’animo», e il giorno seguente postò una foto in cui indossava una camicia gialla a pois neri. Enzo Miccio intervenne in difesa dell’outfit della ministra.
L’Europa unita ha elaborato un sistema simbolico comune, anche dal punto di vista della moda? «Se l’Europa tenta di imporre dall’alto un codice simbolico unico fallisce. Credo che lo slogan uniti nelle differenze sia applicabile anche nei codici simbolici. Sarebbe difficile trovarne uno che rinvii al senso di appartenenza comune ma allo stesso tempo tenga conto dei particolarismi locali».
Intende dire che non sempre i codici simbolici nazionali europei sono conciliabili tra loro? «L’austerità dei paesi del nord sul piano delle scelte politiche ed economiche, per esempio, è un’austerità anche nei codici simbolici, che ha le radici nel minimalismo estetico nordico. A noi rimproverano un’attenzione eccessiva per l’esteriorità».
«Dall’altro lato, nella storia dell’Europa moderna si possono individuare alcuni grandi filoni di influenza politica che hanno condizionato anche i costumi. L’abbigliamento formale maschile, per esempio, discende da quello che gli storici del costume chiamano il “gran rifiuto” da parte dell’uomo della moda, che si è verificato a inizi Ottocento in Inghilterra, e che ha fatto sì che il modello vestimentario maschile più importante fosse e sia ancora una grigia divisa borghese».
Questo “gran rifiuto” è anche il motivo per cui, dall’altro lato, il guardaroba del potere femminile è più suscettibile di critiche. «Il potere è stato storicamente associato a quel codice simbolico, che implicava quell’abbigliamento. Uno dei passaggi che le donne hanno dovuto affrontare per assumere posizioni di potere è stato proprio quello di dover assecondare quel codice.Essersene liberate è importante anche per affermare un codice simbolico diverso del potere. Per entrare nella stanza dei bottoni oggi una donna non deve mettersi un tailleur severo come quello indossato delle prime donne in politica».
Nella stanza dei bottoni europee siedono molte donne, ma il loro guardaroba non eccelle in varietà. «Christine Lagarde da direttrice del Fondo monetario internazionale era nota per la sua estrema eleganza e raffinatezza. Borsa di Hermes, spilla di brillanti, ampie sciarpe di seta. Da quando è diventata presidente della Banca centrale europea veste tailleur grigi tristissimi. Forse è stata condizionata dall’austerity europea, dal contesto».
La presidente della Commissione invece ha presentato la proposta di Recovery Fund da 750 miliardi sfoggiando un tailleur color azalea: «Ursula von der Leyen ha ereditato un po’ la tradizione della Cancelliera Merkel.
Veste una specie di divisa sempre uguale: camicia bianca e tailleur che cambia colore. È interessante notare come tutte le istituzioni europee siano orientate a una grande sobrietà, anche per mediare tra i diversi codici simbolici nazionali».
Se qualcuno sovvertisse quel codice di austerità e sobrietà, senza più cercare di mediare, crede risulterebbe più riconoscibile o rischierebbe di venire frainteso da alcuni cittadini europei? «Premesso che già le istituzioni europee vengono fraintese e agli occhi dei più hanno sempre quell’aria distante e asettica, forse un briciolo di creatività non guasterebbe.
In questi giorni i capi politici europei stanno prendendo decisioni molto importanti, ma spesso rischiano di restare poco identificabili, anonimi». L’abito insomma non fa il politico, ma non è detto che non contribuisca a farlo vincere.