Un territorio minuscolo rispetto ai giganti che ha attorno, in cui non c’è una lingua comune ma si parla francese, tedesco e olandese, con statuto giuridico confuso, due capitali a cui far riferimento, giovani dai paesi confinanti che vi emigrano per evitare il servizio di leva. La sua esistenza, per motivi diversi, fa comodo a tutti, eppure è dura trovare qualcuno che si lasci andare a lodi eccessive. La definizione dei più sarebbe “inevitabile”.
Descritto così, parrebbe l’Unione europea, in realtà è il Moresnet, uno Stato di 3,4 chilometri quadrati, esistito dal 1818 al 1920 tra Paesi Bassi, Belgio e Prussia. Il giornalista olandese Philip Dröge in “Terra di nessuno”, appena pubblicato per la casa editrice Keller, racconta l’origine e la vita di questo microstato triangolare nel cuore d’Europa nato per errore, che più volte rischiò di scomparire e sempre riuscì, più per caso che per merito, a sopravvivere. Se non fosse tutto documentatissimo, sembrerebbe un romanzo di fantapolitica, che Dröge scrive con la precisione dello storico e il gusto dello sceneggiatore.
Tutto nasce da una miniera di zinco e dall’avversione al freddo di Napoleone. Nel 1805 Jean Jacques Daniel Dony – inventore, metallurgista e chimico di Liegi – aveva chiesto e ottenuto da Bonaparte la concessione per estrarre la calamina in un’area a nord del villaggio di Kelmis, nel comune di Moresnet. Dal XV secolo lì esiste una piccola miniera, ma nessuno se ne è mai interessato perché le tecniche per estrarre polvere di zinco dalla calamina erano complicate e costose. Dura arricchirsi con quell’attività.
Dony però ha ideato una nuova tecnica di estrazione che permette di ottenere lamine di zinco purissime e sfruttare facilmente le sue qualità, tra cui quella di non arrugginire a contatto con l’acqua. A Napoleone, per ringraziarlo della concessione e ottenere il brevetto per la lavorazione, regala una vasca portatile fatta di zinco, all’esterno ricoperta di marmo, con una sofisticata caldaia a carbone sul retro che permette di tenere l’acqua calda. L’Imperatore amerà a tal punto quell’invenzione da portarsela dietro anche in battaglia.
A dispetto delle sue doti di inventore, Dony non ci sa fare con gli affari e presto si ritrova senza liquidità. La sconfitta di Napoleone in Russia rende incerto il mercato delle materie grezze e a prendere il controllo della miniera di Kelmis è Francois-Dominique Mosselman, di Bruxelles, tra i più ricchi magnati europei dell’epoca. Nello stesso periodo si apre il Congresso di Vienna, e l’area su cui si trova la miniera ha due possibilità: finire nei Paesi Bassi, che allora includevano il Belgio, o in Prussia.
Tra feste bagnate da alcol in abbondanza e allietate da belle donne, prove di forza e di equilibri reciproci, contrattazioni e timori dell’espansione prussiana, a Vienna si decide chi prende cosa. I negoziatori «tracciano i confini con delle matite dalla punta grossa, così grossa che interi paesi scompaiono sotto le linee», scrive Dröge. Dove passeranno esattamente le frontiere lo si definirà in un secondo momento: ma un chilometro in più o in meno, ottenere un pascolo o perdere una cascina, non farà certo la differenza.
La differenza diventa notevole se su quel chilometro di incertezza sorge una miniera di zinco, come a Kelmis. Un nodo tra Paesi Bassi e Prussia che passa inosservato fino a quando, sei mesi dopo la chiusura del Congresso, le delegazioni dei due paesi si incontrano ad Aquisgrana per stabilire la frontiera esatta. Chi si prende Kelmis? Nessuno dei due Stati vuole cederla all’altro: la questione viene diplomaticamente rimandata.
Il 26 giugno 1816 è tutto deciso, tranne a chi finirà quel triangolo di terra. I delegati dei due paesi hanno fatto il loro lavoro, a decidere su Kelmis deve essere qualcun altro. Vengono istituite due commissioni, una per paese, per dirimere la controversia. Fino a quando non sarà presa una decisione condivisa quel territorio verrà amministrato congiuntamente, i proventi della miniera andranno divisi e nessun militare sarà mandato nell’area. Kelmis-Moresnet diventa una zona neutrale.
Le due delegazioni non potevano immaginare che quella decisione costituiva l’atto di nascita informale di un microstato che sarebbe sopravvissuto un secolo, con tutte le complicazioni – e le sorprendenti implicazioni sociali e giuridiche – cui dovette fare i conti una “terra di nessuno” incasellata tra due – e in seguito tre – Stati diversi, con al suo interno una città, 256 abitanti, qualche bosco e una miniera.
Quel è la giurisdizione da rispettare? Qual è la nazionalità degli abitanti? A chi devono pagare le tasse? Sotto quale esercito devono prestare servizio militare? Ogni domanda potrebbe sollevare controversie complicatissime. Le due commissioni poste a risolverle preferiscono optare per la scelta più semplice: non pretendere alcun diritto su quel territorio, a patto che anche l’altra parte faccia lo stesso. A prendere le decisioni amministrative più semplici è il sindaco di Kelmis, che diventava di fatto un “capo di Stato”.
Resta il problema della legislazione: quale va applicata? Inizialmente si pensa di risolvere la questione in base alla nazionalità degli imputati: un ladro prussiano verrebbe giudicato in base al codice penale prussiano, e viceversa un ladro olandese. Ma è impossibile mantenere legislazioni diverse in un unico territorio: i contratti si rivelerebbero vincolanti per un contraente e non per l’altro. Si opta quindi per una legislazione unica: il vecchio Codice napoleonico, quello da cui entrambi i codici – olandese e prussiano – derivano.
La giustizia viene amministrata un anno nella prussiana Aquisgrana e l’anno dopo nell’olandese Liegi, ma in entrambi i casi rifacendosi al Codice napoleonico. Il franco francese è la moneta ufficiale, ma di fatto nella vita quotidiana si possono utilizzare monete prussiane, olandesi, francesi o persino austriache. Niente leva obbligatoria, nessuna polizia o esercito. Tasse minime, rasenti lo zero. Le condizioni ideali per attirare capitali, attività commerciali e nuovi residenti, molti dei quali sono giovani che vogliono sfuggire la leva obbligatoria.
Nei primi dieci anni la popolazione dell’area raddoppia, in meno di un secolo aumenterà di venti volte. Gli abitanti sono per il 40% tedescofoni, per il 30% belgi, per il 10% neutrali, per il 10% olandesi e per un altro 10% vengono da altri luoghi (francesi, svizzeri o americani). L’alcol costa pochissimo perché non è gravato dalle accise sulla distillazione, fioriscono i bordelli, il gioco d’azzardo e le taverne: nel 1853 un commissario belga ne conta 80, circa una ogni due abitazioni e mezzo.
Questa terra di nessuno diventa anche il paradiso di contrabbandieri e criminali. I primi hanno gioco facile. Per acchiappare i secondi non ci sono i mezzi. Dato che Moresnet non è un vero Stato, non ha trattati di estradizione con altri paesi e al suo interno non sono presenti militari, le richieste di arresto devono ogni volta essere indirizzate a Bruxelles o Berlino, da lì ai rispettivi commissari, che a loro volta devono chiedere al sindaco il quale, se è d’accordo, fa intervenire la polizia del paese interessato. Non proprio la tempestività necessaria per catturare un criminale.
Negli anni si susseguono diversi tentativi di appropriarsi delle concessioni della miniera e salvataggi in extremis, intrighi familiari e battaglie legali. Nel 1830 i Paesi Bassi meridionali si ribellano a Guglielmo I e proclamano l’indipendenza: il Moresnet scopre di confinare con un nuovo Stato, il Belgio.
A poco a poco le cose cambiano anche per il microstato: comincia a costituirsi un consiglio comunale, un minimo stato sociale, un tentativo di corpo di polizia. Si stampa un (inutile) francobollo e si tenta di far diventare lingua ufficiale l’esperanto. Da tutto il mondo arrivano reporter per raccontare questo “triangolo delle Bermuda giuridico”, giuristi e accademici europei si interrogano su questa nuova entità statuale: «Une bizarrerie de la carte politique de l’Europe» la definisce il politologo e diplomatico francese René Dollot.
Persino il totale svuotamento della miniera di zinco, nel 1884, non basta a decretare la fine di questo «meraviglioso errore della storia», come lo definì la docente della Sorbona Camille Piccioni. Ci vorrà la Prima guerra mondiale e la ridefinizione dei territori europei a Versailles nel 1920 per ridisegnare quel confine ambiguo e includere quell’area e la sua ormai estinta miniera nel territorio belga.
Mentre gli accademici di tutta Europa si chiedevano se il Moresnet potesse essere considerato un Paese a tutti gli effetti, questo semplicemente si comportava come se lo fosse. Mentre i territori confinanti – Paesi Bassi e Prussia – cambiavano e si trasformavano in Stati moderni – diventando rispettivamente Belgio e Germania -, il Moresnet sperimentava la condizione di Stato debole, semianarchico, multiculturale, prospero e dai confini spalancati: «un anacronismo politico-geografico nel bel mezzo dell’Europa», lo definisce Dröge. Questa “bizzarria della carta politica d’Europa” provò tuttavia che gli Stati Nazione, che proprio allora andavano definendosi, non erano senza alternative possibili. Molto prima che si tentasse di sperimentare altri modelli politici, la realtà dimostrava di avere già più fantasia di giuristi e statisti.