La mossa del filosofo, in questi casi, è rinchiudersi in speculazioni autoreferenziali, per cui lasciando irrisolto il dilemma del mio futuro occupazionale finii per ricordarmi del blog che avevo aperto quando ero a Berlino, recuperai la password e ci rimisi mano.
Mi sembrava evidente che l’unico tema in grado di meritarsi sforzi speculativi continuasse a essere la tecnologia, così ripulii il sito delle cose che non mi piacevano più – l’avvenuto distacco dall’accademia rendeva ora evidente la natura di inequivocabile tortura di molti dei miei saggi brevi – caricai un template meno datato e ripresi a scrivere di intelligenze artificiali, scenari futuri e umanità in affanno, cercando al contempo modi per fare maggiori concessioni al pubblico.
Mi erano ad esempio sempre piaciute le operette morali del Leopardi, incominciai così a esporre in forma dialogica i problemi sui cui lavoravo.
Dopo i dialoghi mi dilettai con la forma del romanzo epistolare: le “Lettere d’amore di Wozniak a un calcolatore di nome LISA” furono la prima miniserie di post che ottenne un certo successo, venne letta in tutto da cinquemila persone. La cosa mi stupì e mi lusingò. Guardavo la schermata dei Google Analytics, studiavo i tempi di permanenza in pagina, incrociavo i dati con le città di provenienza (in cima c’erano ovviamente Milano e Roma, ma per qualche motivo misterioso ero molto letto ad Asti).
Al di là delle sottigliezze, provai per la prima volta il piacere del numero, del consenso muto, avvertii l’enorme potere sull’ego di quella sequenza di bit che genera l’alzarsi di un pollice su Facebook.
Un pollice era niente, cento erano qualcosa, da mille in su si incominciava a respirare quell’aria rarefatta che doveva allietare la quotidianità degli oligarchi.
La prima volta ci arrivai con la serie “Confessioni di Steve Jobs”, dove misi in scena uno Steve Jobs grottesco, rapace e goffo. Il pezzo che ruppe il muro dei mille like lo ritraeva impegnato a spiegare a un operaio cinese che assemblava iPhone dodici ore al giorno, soffriva la fame e meditava il suicidio che doveva “pensare diversamente” dato che l’azienda dove lavorava aveva installato delle reti antisuicidio sui tetti.
Privo di grossi spunti teorici, era tutto sommato un pezzo abbastanza scontato, non certo il mio migliore.
Partì subito a razzo. Fece 1457 like e 15 mila lettori unici il primo giorno, poi venne ripreso su Facebook da un attore che aveva vinto il David di Donatello e su Twitter da un famoso fumettista, il che portò i lettori unici a 60 mila.
Da lì in poi, la serie “Confessioni di Steve Jobs” divenne la mia hit, con 85 mila lettori unici di media.
Ogni volta che cliccavo “Pubblica” – rigorosamente negli orari in cui il traffico sui social era maggiore – passavo dei minuti di autentico terrore davanti agli analytics: a quel punto aveva incominciato a importarmi che le cose continuassero ad andare bene.
Al momento della pubblicazione sul sito e sui social di un nuovo post, da tre-quattro lettori la pagina saliva immediatamente a trentaquaranta lettori al secondo. Questa situazione durava un paio di minuti. Se rimaneva tale, o, orrore, incominciava a diminuire era finita, il post sarebbe stato irrimediabilmente un insuccesso. Ma se il numero saliva allora il pezzo sarebbe diventato virale.
L’andamento era quasi esponenziale: cento lettori al secondo dopo cinque minuti dalla pubblicazione corrispondevano alla fine ad almeno mille like, duecento a circa diecimila, una volta raggiunsi i quattrocento lettori/secondo con “Steve Jobs e Casaleggio in trattoria” e dopo tre giorni il social ranking del pezzo segnava 187 mila like e 700 mila lettori unici. In quel periodo il “Corriere della Sera” e “la Repubblica” messi assieme arrivavano a circa 500 mila copie.
Mi accorsi abbastanza in fretta che non contava granché se ci fosse o meno sostanza speculativa dietro le storie, i dialoghi e le situazioni surreali che inventavo. Quello che agevolava la diffusione dei pezzi era l’umorismo, sì, ma soprattutto la veemenza: più l’attacco personale che portavo avanti nel testo era acuto, impietoso, diabolico, più gli utenti unici accorrevano, si scambiavano il link raccomandandosi attenta lettura.
Certo, esisteva una nutrita schiera di fan che apprezzava anche il sottotesto filosofico, intraprendeva ardite esegesi dei riferimenti, scavava alla ricerca delle citazioni nascoste. Ma la realtà dei fatti è che gli stessi concetti quando venivano espressi senza spargimento di sangue non viralizzavano mai, sotto nessuna circostanza. Il pubblico agognava il pestaggio.
Questa scoperta al tempo stesso mi spaventò e mi esaltò. Intuivo il lato nero di quel nuovo potere, ma non potevo che essere affascinato da come il suo segreto mi si fosse rivelato in tutta la sua chiarezza.
Facevo parte della generazione che era cresciuta sotto lo strapotere ottuso della televisione e anni prima l’avvento di internet era parso ai più di noi come un momento d’infinita liberazione, un evento di portata tale da autorizzare le speranze più ingenue.
Se l’antidoto all’utopia è la storia, di storia, mentre internet arrivava nelle nostre case, ne avevamo alle spalle molto poca, il che, credo, risultò decisivo nel nostro non riuscire a prevedere come sarebbe andata a finire.
La prima cosa che vidi su internet fu un video del gol di Ravanelli nella finale di Champions del ’96 Juve-Ajax, quindici secondi a una definizione infima che ci misero cinque minuti buoni a caricarsi con un modem a 56k.
Da lì in poi fu amore, il tipo di passione istintiva e non mediata che si può provare per un inaspettato aumento delle proprie facoltà. Cose che non si potevano fare prima, come procurarsi gratuitamente una canzone, ora erano a portata di mano: con Napster in una cinquantina di minuti si poteva scaricare un MP3, un tempo che oggi sembra una barzelletta ma allora era un salto nel futuro. La mia prima volta fu con un brano di Method Man e Capleton, fu facile più o meno come aprire un rubinetto e aspettare che la bottiglia si riempisse.
Col peer to peer anche il porno era comodamente disponibile a casa e gratis. Il mercato nero preadolescenziale dei giornaletti orrendamente unti era finito per sempre. Il video del bukake di una giovane americana sul litorale romano mi sembrò l’annunciazione di una nuova era: un nuovo mondo si stava dischiudendo davanti ai nostri occhi, le possibilità erano infinite, sempre che durante la rivoluzione fossimo riusciti a non perdere la vista. Scoprii poi che il video in questione conteneva un virus, ma la sostanza non cambiava.
A casa c’era solo un computer, per cui dovetti imparare come rendere invisibili alcuni file a un utente primitivo come mio padre ma, ehi, internet spiegava anche quello.
Furti di arte e di porno a parte, quello che vedevamo davanti a noi era anche un intero mondo pieno di informazioni dove non c’era posto per Berlusconi, Bruno Vespa o Serena Dandini e gli altri ingombranti monoliti televisivi, i boss mediatici cheavevano anestetizzato le vite dei nostri genitori costringendoli ad ascoltare in silenzio, alla stregua di muti esseri inferiori. Internet invece eravamo noi, chiunque poteva scrivere, chiunque poteva essere il media.
Capire, diversi anni dopo, come quell’infrastruttura a metà fra il pirata e il rivoluzionario si fosse trasformata in un’arena dove l’odio era la moneta forte fu perciò una specie di trauma.
Certo, avevo già fatto esperienza della sanguinosa anteprima dei forum online di musica, dove giusto il tempo di due o tre post e all’interno di ogni thread e si assisteva invariabilmente a un aggregarsi per bande, all’instaurarsi di feroci gerarchie e al manifestarsi, ugualmente sfacciato, di servilismo e aggressività.
In quel contesto pionieristico avevo avuto un saggio della torbida materia di cui le persone si rivelavano essere fatte quando si proiettavano in un mondo fatto di 0 e di 1.
Oltre, naturalmente, al proverbiale tizio che apriva una discussione che esisteva già in svariate forme nell’archivio, prototipo di un nuovo tipo di uomo che scriveva compulsivamente senza mai peritarsi prima di leggere, neppure la riga immediatamente sopra lo spazio dove sarebbero apparse le sue parole. Lo stesso tipo di uomo che un giorno mi avrebbe chiesto se per caso avevo visto Zeitgeist.
Ma lì c’era, che si trattasse di un forum di dj o di amanti dei trenini elettrici, l’apparente scusa del settarismo. I social riguardavano invece il mondo intero ed erano ingegnerizzati appositamente per massimizzare – a qualsiasi costo – il tempo speso online. Erano una questione di tutt’altra magnitudo.
L’altra cosa che mi stupì fu scoprire che più nuovi lettori conquistavo, più spuntava qua e là anche uno sparuto numero di personaggi che mi odiava, e non parlo dei fan delle figure che attaccavo nei miei articoli – il loro disappunto era logico, era nell’ordine delle cose – ma di persone apparentemente insospettabili che, almeno da quanto emergeva da una rapida analisi dei loro profili social, sembravano in realtà a me abbastanza simili: odiavano le persone e le cose che odiavo io – condividevamo cioè la matrice più profonda dell’identità – e avevano più o meno i miei stessi interessi. Quasi tutti inoltre, in una forma o nell’altra, scrivevano, o quanto meno ci provavano.
Questi haters si distinguevano però da me per due tratti fondamentali e ricorrenti: sembravano privi di qualsiasi forma di autoironia, erano cioè il genere di persona che si prende mortalmente sul serio, e non godevano di alcun tipo di successo.
Ingenuamente avevo sempre pensato che dalle persone che riuscivano in qualcosa ci fosse solo da imparare ma dopo quest’esperienza arrivai, in un momento di estrema onestà intellettuale, a chiedermi se questo, in passato, fosse stato davvero il mio approccio, o se invece fosse solo un atteggiamento che ora, protetto dalla rinfrescante ombra del mio piccolo successo, facesse comodo pensare di aver avuto. Non seppi, o non volli, darmi una risposta.
In certi momenti dentro il cono blu e bianco di Facebook mi sembrava che non ci fosse posto per altro che l’idolatria sperticata o, sull’altro lato, per l’invidia e il rancore.
Incominciai a percepire internet come un gigantesco laboratorio sul rosicamento. Era un mondo radicalmente diverso da quello in cui ero vissuto fino a quel momento, ogni sentimento e ogni reazione erano deformati in maniera grottesca (spesso però anche molto divertente), tutto era estremo, polarizzato, privo di empatia e di sfumature.
Niente era serio, mai, su qualsiasi cosa aleggiava lo spirito di una violenza distruttrice agevolata da uno schermo che spersonalizzava sia la vittima che l’aggressore.
Dietro la perpetua autocelebrazione e la ferocia di branco si respirava un tipo di nichilismo cupo, brutale e di nuova generazione. E se – autentico momento di terrore – una parte almeno della vis polemica che utilizzavo nei miei post contro la mia vittima di turno fosse stata alimentata a sua volta dall’invidia? Magari Bill Gates era una persona splendida che aveva lavorato duro e avuto molta fortuna, potevo escluderlo con certezza? Naturalmente no.
Non persi però troppo tempo a rifletterci sopra, non in quel momento almeno. Il potenziale del mezzo era incredibile, potevo scrivere quello che volevo e raggiungere milioni di persone in pochi minuti da un computer appoggiato sul mio letto sfatto, proprio sotto manifesti di Groove appesi alle pareti.
Milioni perché proprio da quando l’odio scorreva potente nelle vene della rete tutti sembravano fare a gara per farne parte, i tempi della nicchia visionaria erano finiti da parecchio. E chi non passava il proprio tempo a odiare sembrava comunque ritenere di fondamentale importanza condividere la foto della pizza che stava mangiando o dei figli che sguazzavano al mare e quindi era comunque là dentro, lasciando i Bruno Vespa sempre più soli, in compagnia di un declinante pubblico di ottuagenari.
Lo stesso avveniva con i giornali, che a intervalli regolari aumentavano la grandezza dei caratteri con cui venivano stampati per venire incontro all’incipiente geriatrizzazione degli ultimi lettori rimasti.
E quando succedeva – di farsi leggere dai milioni direttamente dal letto di casa – potevo quasi sentire la dopamina fluire nel cervello portando con sé una sensazione di benessere e di potere che si trasformava in ansia e presagio di sventura quando invece il miracolo non aveva luogo.
Un’altalena che non aiutava certo la lucidità, ma la lucidità – attenzione, aforisma in arrivo – era nemica mortale della felicità. Incominciavo forse a intuire che prima o poi avrei dovuto fare i conti con tutto questo, ma in quel momento ero troppo impegnato a guardare la mia vita cambiare, in meglio, sotto i miei occhi.
La soddisfazione che provavo per il successo del blog era tutt’altra cosa rispetto a quello, economicamente ben più remunerativo, di Groove. Questo era un successo personale e pubblico, non, cioè, nascosto dietro le quinte e per di più avveniva all’interno di un ambiente in cui essendoci in palio solo l’attenzione degli altri la competizione era spietata. Il mondo della notte al confronto era roba da educande.
Certo, internet non mi faceva guadagnare denaro ma dal punto di vista dell’autostima non c’era paragone. Ma, appunto, non è che ci riflettessi sopra troppo: dovevo lavorare.
Oltre a occuparmi di Groove ora dovevo produrre sempre nuovi contenuti da dare in pasto ai lettori, un compito sfibrante, mai finito, un tributo che andava però pagato se volevo che quest’incredibile novità, quella cioè di avere una prospettiva nella vita oltre ad alzare soldi in nero nei locali, non sfumasse dall’oggi al domani.
Era evidente che mantenendo quel genere di impatto sul pubblico qualcosa di buono sarebbe successo, anche se non mi era chiaro cosa.
Fu a quel punto che il Mastro mi scrisse.
da “Odio”, di Daniele Rielli, Mondadori, 2020, 20 euro