Lezioni britannicheGli anti-populisti del Pd non facciano l’errore degli anti-Corbyn

La battaglia per fermare la deriva grillina dei democratici è troppo importante per rischiare di confonderla con la solita tragicommedia delle rivalità interne e della lotta di corrente nel centrosinistra

Vincenzo PINTO / AFP

Ostile come sono alla politica delle caricature e delle demonizzazioni personali, mi asterrò da ogni facile ironia sul tempismo e la virulenza delle parole di Dario Franceschini, primo a scagliarsi contro Giorgio Gori per le sue affermazioni sulla necessità di sostituire Nicola Zingaretti, e primissimo nella lista dei dirigenti sospettati di volerlo sostituire. Colpisce tuttavia il carattere scomposto del dibattito, che ha avuto anche una non brillantissima coda su twitter, tra lo stesso Gori e il vicesegretario Andrea Orlando, oltre che su Repubblica, dove ieri, all’intervista del sindaco di Bergamo, ha risposto un’intervista della presidente del partito Valentina Cuppi (alla quale c’è comunque da augurare che sia la prima di una lunga serie di interviste, e trovi così il modo di far valere il suo punto di vista anche in altre circostanze). 

Il rischio è che nel Pd si ripeta in qualche modo quel che è accaduto al Labour ai tempi di Jeremy Corbyn: parallelo utilizzato spesso polemicamente contro Zingaretti, che dovrebbe tuttavia far riflettere anche i suoi oppositori interni, nel partito e nella maggioranza. Se infatti l’ex leader laburista non rappresenta certo un modello di successo per il modo in cui ha fronteggiato l’avanzata populista proprio lì dove è nata, nella Gran Bretagna della Brexit, non si può dire che i suoi rivali interni si siano proprio distinti per la lucidità e l’efficacia della loro iniziativa. 

Se infatti Corbyn, a detta di molti, ha finito per spianare la strada alla Brexit proprio nel momento in cui gli alfieri del Leave, impantanati nelle contraddizioni del governo, costretti a scontare la differenza tra le promesse e la realtà, sembravano in un vicolo cieco (e chissà cosa avrebbe potuto ottenere un’iniziativa più decisa e nettamente alternativa), gli avversari interni del leader laburista non sono mai nemmeno entrati in partita. Anzi, probabilmente hanno contribuito a rafforzarne la presa, lasciandosi rinchiudere nel cliché del vecchio gruppo dirigente blairiano incapace di fare i conti con i propri errori e con il passare del tempo, ancora prigioniero degli slogan e delle categorie di un’altra stagione, arrogante e prepotente nel suo rifiuto di riconoscere ragioni e legittimità del risultato congressuale. E per di più diviso, litigioso e inconcludente. Difficile non vedere qualche preoccupante analogia con l’Italia e con il variegato fronte di coloro che nel centrosinistra si oppongono alla prospettiva dell’appeasement con i populisti.

Avere avuto ragione dopo, una volta sancita la definitiva fuoriuscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, e riconsegnato il governo ai populisti di Boris Johnson, non è una grande consolazione per chi, nel Labour, aveva lanciato l’allarme per tempo. Tanto meno lo sarebbe in Italia, dove il rischio di un simile esito non è poi così lontano, come ci ha ricordato di recente Matteo Salvini, evocando l’ipotesi di un presidente della Repubblica eletto da una maggioranza giallo-verde-nera formata da centrodestra e cinquestelle. Il candidato giusto per una simile operazione potrebbe essere l’attuale presidente della Consob, Paolo Savona, o magari Giulio Sapelli, che già una volta fu sul punto di soffiare il posto a Giuseppe Conte (da presidente del Consiglio, in quel caso).

Al danno, per il Partito democratico, si accompagnerebbe così la beffa di vedere l’intera strategia seguita fin qui produrre esiti opposti a quelli desiderati, ma in fondo non così imprevedibili: se infatti una simile ipotesi è ancora immaginabile è proprio perché si è consentito ai cinquestelle di continuare a difendere e a mantenere intatta, dopo oltre otto mesi dalla nascita del nuovo governo, l’intera eredità dell’esecutivo gialloverde, a cominciare dai decreti sicurezza. È dunque interesse di tutto il Pd che si faccia chiarezza e si costringano gli alleati a tagliare i ponti con l’esperienza grillo-leghista. 

Qui corre infatti il confine più netto tra i sostenitori dell’«alleanza strutturale» con i cinquestelle (che finora hanno considerato accettabile una simile capitolazione sui principi fondamentali del diritto e della convivenza) e i suoi oppositori (che l’hanno denunciata come tale). A dimostrazione del fatto che non si tratta di uno scontro tra «destra» e «sinistra» interna. Del resto, se proprio volessimo leggerlo in questi termini, la «destra» sarebbe quella della maggioranza di Zingaretti e Franceschini: a meno di non voler considerare di sinistra le politiche del governo che aveva Matteo Salvini come vicepresidente del Consiglio. 

Gli oppositori della grande alleanza populista sbaglierebbero dunque a farsi rinchiudere nel cliché dei nostalgici del renzismo, del blairismo o della terza via. Non foss’altro perché contribuirebbero così a perpetuare l’equivoco secondo cui l’autentica sinistra sarebbe quella che parla di nuovo umanesimo nelle interviste e approva leggi disumane in Consiglio dei ministri (votandole con convinzione, come fecero i cinquestelle a suo tempo, o rifiutandosi di cancellarle, come fanno da otto mesi i democratici).

La battaglia per fermare una simile deriva è troppo importante per rischiare di confonderla con la solita tragicommedia delle rivalità interne e della lotta di corrente nel centrosinistra.

 

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