Più di un giocoChe cosa vuol dire il calcio a porte chiuse per gli ultras

I gruppi organizzati, ma anche chi è semplicemente abituato a seguire le partite in curva, vive la domenica come un rito religioso che va molto oltre il risultato del campo. La Serie A è già pronta per ripartire, ma almeno per il momento ha deciso di lasciarli fuori

Tiziana FABI / AFP

Il calcio italiano sta per ripartire. Lo farà con modalità del tutto inedite, seguendo un nuovo protocollo di sicurezza e con partite a porte chiuse. L’assenza dei tifosi, come testimonia la Bundesliga tedesca, è tangibile: il rumore di fondo dello stadio è una componente difficile da escludere dall’equazione, anche per gli spettatori a casa.

In un calcio fermo per tre mesi, che ora si prepara per ripartire con gli spalti vuoti, chi ci ha perso di più sono forse proprio i tifosi. In particolare quelli che vivono per la curva, per il giorno della partita, e trovano una raison d’être solo se possono seguire la loro squadra dal vivo: è per questo che molte tifoserie organizzate – quasi tutte – si sono opposte alla ripresa del campionato.

Lo ha spiegato a Linkiesta il gruppo Ultras Udinese 1995, specificando che le risposte sono esclusivamente voce del loro gruppo: «A queste condizioni il campionato non dovrebbe ricominciare. Oltre che per ovvi motivi di salute pubblica, pensiamo che la spinta alla ripartenza sia dovuta solo a motivi economici, facendo capire una volta di più che il calcio si sta allontanando dal calore e dalle emozioni del pubblico, soprattutto dai tifosi più appassionati».

In questi mesi di “astinenza” dal calcio giocato la mancanza più grande per gli ultras non sono le partite in sé, intese come gesti tecnici e atletici, risultati, sport: mancano i momenti di aggregazione. Per molti tifosi il giorno della partita non è solo un evento della routine settimanale, ha a che fare con una ritualità spiegabile solo con concetti che rimandano alla religione, un paganesimo che ha radici talmente profonde nella sottocultura ultras da andare, per definizione, al di là di quel che accade in campo.

Il mondo della curva e delle tifoserie organizzate ha molte sfumature, è composto da una galassia di persone e gruppi molto diversi fra loro. Spesso però chi li racconta – nei libri, sui giornali, per strada – cerca scorciatoie, semplifica l’assunto attribuendo il nome ultras a tutti i tifosi in curva, senza distinzione. Anche a chi non si definisce tale.

Lo spiega Giuseppe Ranieri, autore del libro “@Ultras. Parole e suoni dalle curve” e membro del gruppo Volti Noti di Catanzaro: «C’è un equivoco di fondo dietro il mondo ultras. La parola stessa è diventata un’etichetta da applicare qui e lì. La galassia ultras comprende gruppi di tutti i tipi, ci sono quelli politicamente schierati, quelli che si spendono in operazioni di solidarietà nella loro città, quelli più piccoli che vivono solo sugli spalti. E poi nell’orbita dei gruppi ci sono i tifosi delle curve, che però spesso vengono definiti ultras senza motivo».

È un fraintendimento dovuto anche alle stesse tifoserie organizzate, sempre molto chiuse, poco disponibili a raccontarsi e scettiche verso il lavoro dei media.

Un tifoso della Roma, che si presenta a Linkiesta con lo pseudonimo di Morris per mantenere l’anonimato, racconta cosa significa vivere il calcio senza l’esperienza allo stadio. Prima però ci tiene a specificare che pur avendo l’abbonamento in curva all’Olimpico dal 2004 – anni del liceo, per lui – non si definisce un ultras. «Sono piuttosto un ‘curvarolo’ se si può dire».

Morris spiega che la sua reazione all’assenza di calcio è stata contenuta, perché nel frattempo c’erano problemi più grandi a cui pensare, ma «la ritualità della giornata allo stadio, compreso montare il bandierone prima della gara, ho dovuto accantonarla e mi manca. Perché gli spalti sono uno spazio di decompressione, un luogo sicuro che vivo e un momento che dedico a me. Per chi come me è ossessionato dal lavoro, la domenica è un momento in cui mettere tutto in pausa, tutti i problemi, la pesantezza della quotidianità insieme a un determinato gruppo di persone».

Poi racconta di quella volta che è andato a vedere un derby con la Lazio il giorno prima di prendere un dottorato all’università, perché proprio non poteva farne a meno. E di un amico, di cui non fa il nome, che vive all’estero per lavoro ma che continua a fare l’abbonamento alla stessa curva dell’Olimpico.

È un senso di comunità, di appartenenza, che non si vuol perdere. Anche per chi come Morris e il suo gruppo non si definisce ultras. Un termine difficile da inquadrare, anche per molti fedelissimi della curva.

Un tifoso del Napoli, che come Morris sceglie l’anonimato, dice: «Sono anni che vado in curva al San Paolo, ci andavo anche quando vivevo a Roma salendo su un treno la mattina prima di ogni partita. Ormai ci conosciamo tutti, ci vediamo prima e dopo le partite, ma nessuno mi ha mai detto ‘Sei uno di noi’. Io non penso di essere un ultras, e trovo ancor più difficile spiegare in generale chi o cosa lo sia».

Anche per lui, però, la ripresa del calcio ha un sapore particolare. È la solita differenza tra le partite sul divano e quelle in curva: viverle allo stadio significa condividerle con un gruppo di persone che magari non si conoscono per davvero, o di cui si sa giusto il nome, ma che in quel momento sono riconosciute come amici.

«Succede soprattutto quando inizi ad andare in trasferta con tutta la tifoseria. Ritrovarsi sugli spalti di uno stadio che non è quello di casa, ma avere al proprio fianco sempre quei volti familiari crea inevitabilmente un legame, anche se si tratta di persone che nella vita di tutti i giorni non si incontrerebbero mai. In questo la curva è una sorta di livella che mette tutti sullo stesso piano, tutti dalla stessa parte», dice il tifoso azzurro.

La stagione sportiva che sta per riprendere ha già perso tutta questa dimensione sociale data dalla vita in curva, il senso di comunità che si ritrova nelle parole dei tifosi.

Per molti, però, è difficile anche mettere in conto di non poter valorizzare un investimento, emotivo ed economico, che si è disposti a fare ogni anno. È il caso di Andrea, giornalista genovese abbonato a Marassi dalla stagione 1998/99, quando ancora andava alle elementari. Dal 2016 Andrea vive a Milano e non ha mai smesso di seguire la Sampdoria allo stadio, facendo una piccola trasferta, Milano-Genova e ritorno, a ogni partita casalinga. Significa tempo, soldi, energie dedicate interamente al club blucerchiato.

Ma non solo. «Ogni anno – spiega – seguo almeno cinque o sei partite in trasferta, compatibilmente con il lavoro e con le altre spese. Non mi è mai pesato fare sacrifici di questo tipo, e inevitabilmente mi manca quella ritualità, l’attesa della partita, l’aria che si respira allo stadio».

L’ultima volta che ha acquistato un biglietto per una trasferta era quella di Milano, fin troppo comoda per lui. La Samp avrebbe giocato a San Siro contro l’Inter, ma la partita non si è mai disputata: è stata rinviata proprio all’inizio dell’emergenza coronavirus e sarà uno dei recuperi del 21 giugno.

«Il primo pensiero quando è stato sospeso il campionato non è stato ‘quando si ricomincia?’, ma ‘quando si torna allo stadio?’, l’idea che il calcio riprenda senza poter andare sugli spalti non mi entusiasma più di tanto. Per me sarà sempre una ripartenza a metà, quella vera si avrà quando si potrà tornare sugli spalti».

Adesso il campionato riprenderà con un format compresso, che strizza in un mese e mezzo dodici giornate, con la Lega di Serie A che ha previsto pochissimi giorni senza calcio giocato nel nuovo calendario.

E magari nel caso di Andrea dover assistere da lontano alle partite della Sampdoria proprio quest’anno potrebbe essere ancor più difficile. Se è vero che tutti i tifosi della curva giurano che il risultato non fa differenza – quelli del Napoli dicono «al di là del risultato», Morris ha ricordato che «chi tifa Roma non perde mai» – è anche vero però che in una stagione sportivamente complicata non poter andare allo stadio a sostenere i propri colori è una costrizione ai limiti dell’insostenibile.

«La stagione della Samp – dice Andrea – era già molto complessa in termini di classifica, ora avremo tante partite ravvicinate e non potremo vederne nessuna allo stadio. È scoraggiante, possiamo dire che la paura per la retrocessione c’è, e questi sono i momenti in cui si vuole dimostrare vicinanza alla squadra».

I tifosi della curva, non solo ultras o gruppi organizzati, sono i veri grandi esclusi dalla ripresa del campionato. La ritualità quasi religiosa con cui seguono le partite non farà parte della loro vita almeno per un altro po’. Nel frattempo dovranno accontentarsi di un calcio nel quale non si ritrovano.

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