Donald Trump è la più grande catastrofe mai capitata all’America dall’11 settembre 2001, il primo presidente antiamericano degli Stati Uniti, la parodia dello yankee rozzo, arrogante e razzista, il sogno realizzato dei nemici del mondo libero, l’incubo di chiunque sia cresciuto con la cultura popolare americana. Bugiardo, violento, ignorante, non c’è un momento della presidenza del Cialtrone-in-chief che non sia un imbarazzo morale, civile e sociale per chiunque abbia a cuore il decoro della politica, la dignità personale e l’epopea del sogno americano.
Le violenze razziali in America ci sono sempre state, anche negli anni di Barack Obama, e ci saranno ancora, come ha detto ieri Joe Biden, ma questa è la prima volta che un presidente degli Stati Uniti rispolvera slogan fascisti, preferisce i despoti ai leader democratici, corteggia l’ex Kgb, definisce «ottime persone» i neonazi che picchiano i neri, usa parole d’ordine suprematiste, chiude le frontiere, innalza muri anziché abbatterli, gestisce la Casa Bianca con metodi da boss di Cosa Nostra, licenzia chiunque esiti a ripetere le sue menzogne o provi a frenare le sue fesserie, minaccia gli alleati tradizionali, fa saltare gli accordi internazionali su cui è stata costruita la grandezza dell’America, addita i giornalisti come «nemici del popolo», terrorizza via Twitter gli oppositori e i possibili dissidenti interni, premia i suoi interessi privati, intimidisce le aziende che non assecondano i suoi desideri, non protegge i suoi concittadini dall’epidemia per inseguire un tornaconto elettorale, suggerisce di iniettare disinfettante nelle vene contro il virus, impedisce con la forza le manifestazioni di protesta, invita a schierare l’esercito per le strade, incita le forze dell’ordine a usare la forza, auspica un tiro al bersaglio contro gli americani che pretendono di non morire strozzati dai poliziotti per il solo fatto di essere neri.
Questo è Trump, un attore di serie C che aspira a interpretare il ruolo di grande dittatore e che si sente finalmente a un passo dall’ottenere la parte della vita.
Non si può dire che non fosse tutto molto chiaro fin da quando ha conquistato il Partito repubblicano dei Bush e dei McCain e dei Romney. Del resto, se gli ultimi due presidenti e gli ultimi due candidati repubblicani, cioè i capi dei conservatori americani dal 1988 al 2016, sono diventati militanti never trumper, mai trumpiani, qualche dubbio sarebbe dovuto venire a quelli che immaginavano che una volta al potere invece Trump si sarebbe comportato bene.
La presunta razionalità di governo del politico autoritario è un argomento dalla logica fallace, a Budapest come ad Ankara, a Washington come a Mosca, ma anche a Roma.
Matteo Salvini è un groupie di Trump e di Putin, Giorgia Meloni solo di Trump, ad alcuni dei loro amici Putin ha fatto la campagna elettorale. Ma anche la sinistra-sinistra di qua e di là dell’Atlantico preferiva Trump alla «neoliberista» Hillary Clinton, e ancora oggi non vede male lo smantellamento dei trattati di libero scambio avviato da Trump. Alessandro Di Battista, tra un elogio al Venezuela e un’infatuazione per gli Ayatollah iraniani, ha spiegato più volte che Trump è molto meglio di Obama. Giuseppe Conte si è scapicollato ad abbracciare l’amico Donald, così come l’amico Putin, mentre Di Maio, be’ Di Maio, come al solito, non ha capito niente.
Il decano degli editorialisti conservatori americani, George Will, ha scritto sul Washington Post che Trump va rimosso dallo Studio Ovale, immaginando che il presidente non esiterà nei prossimi mesi a corrompere il processo elettorale se dovesse intuire che la crisi economica, la carneficina da Covid-19 e le insurrezioni popolari potrebbero indebolire le sue possibilità di rielezione.
L’ex capo di stato maggiore delle forze armate americane, Mike Mullen, nominato da George W. Bush e confermato da Barack Obama, ieri ha detto che «non si può più restare in silenzio» di fronte ai comportamenti di Trump, perché «i nostri concittadini non sono i nemici e non devono diventarlo».
È intervenuto Obama, è intervenuto Bush, è intervenuto perfino Lachlan Murdoch, proprietario di FoxNews, a ricordare ai suoi dipendenti che «è essenziale osservare il lutto della famiglia Floyd, seguendo da vicino le voci della protesta pacifica e innanzitutto capendo che black lives matter, che le vite dei neri sono importanti».
L’anziano leader della destra cristiana Pat Robertson, un super reazionario, ha chiesto al presidente di fermarsi perché quello che sta facendo «non è cool». Uno spot firmato “Elettori repubblicani contro Trump“, in onda su FoxNews, usa le parole di Trump e le immagini dei disastri della sua presidenza e invita «a porre fine, a novembre, alla carneficina americana di Trump».
Questo presidente è un pericolo per la democrazia in America e con la pseudo dottrina America First (che in realtà è Trump First) è uno dei principali responsabili del caos mondiale. Il 3 novembre, sempre che Trump non impedisca ai connazionali di votare, sarà il giorno decisivo per il futuro dell’Occidente e del pianeta, ma la lezione di questi giorni per gli americani e per il resto del mondo è che non si può più far finta di niente, non si può più ignorare quello che accade quotidianamente, non si può più sperare che il tempo porti consiglio.
Se al governo dei paesi democratici andranno Trump o le sue versioni edulcorate come Boris Johnson, Marine Le Pen, Viktor Orbán, Matteo Salvini, Giorgia Meloni e i babbei a cinquestelle, il finale di partita è già scritto: indebolimento delle istituzioni internazionali, fine delle alleanze tradizionali, addio alla pace tra le nazioni, uscita dall’Europa, sovranismo monetario, miseria diffusa, tensioni razziali, insurrezioni sociali, assoggettamento alla Cina o alla Russia senza possibilità che il Settimo Cavalleggeri venga a salvarci.
Ma se l’America si sta svegliando, resta ancora da capire dov’è l’indignazione italiana, dove sono gli elettori di centrodestra contro Salvini e Meloni, e quelli di sinistra contro Di Maio e Di Battista, dove sono i grandi editorialisti, i dirigenti dei media d’area, gli esponenti conservatori e progressisti, i militari, i funzionari dello Stato, gli ex presidenti che dicono basta con il linguaggio incendiario degli attuali leader populisti e nazionalisti contro gli immigrati, contro gli avversari politici, contro gli alleati, contro la Germania, contro la Francia, contro la Grecia, contro le istituzioni democratiche, contro la moneta unica? Il problema è che non ci sono.
In un formidabile articolo di Anne Applebaum sul prossimo numero dell’Atlantic si legge che, quando i regimi cadono, la storia finisce sempre per giudicare i complici, coloro che per ragioni diverse hanno consentito che l’indicibile accadesse.
Non c’è da andare molto lontano per individuare chi per opportunismo o per quieto vivere o per banale idiozia oggi scherza col fuoco: i volenterosi complici dei nemici della democrazia liberale siamo noi, noi che costruiamo una falsa equivalenza morale tra gli scempi autoritari e antidemocratici di Trump e di quelli come lui e le eventuali mancanze degli avversari democratici (“le mail di Hillary”, “e allora il Pd”?), noi che diamo credito a Salvini, noi che invitiamo Meloni, noi che porgiamo il microfono a Casaleggio, noi che prendiamo sul serio Rousseau, noi che facciamo le dirette live di Pappalardo, dei vaffaday e delle adunate fasciste, noi che pendiamo dalle labbra di un guitto come Grillo, noi che omaggiamo Di Battista, Borghi e Bagnai, noi che non spernacchiamo Vito Crimi come meriterebbe, noi che governiamo con Conte e Di Maio.