Non c’è più posto a HollywoodForse è meglio smettere. Woody Allen ha annunciato le sue “dimissioni”

Bloccato dal virus, boicottato dall’industria del cinema, il regista americano pensa di non fare più film. «Se anche avessi il miglior copione del mondo, chi lo produrrebbe?»

In pochi lo avrebbero detto, ma il 2020 potrebbe essere anche l’anno delle “dimissioni” di Woody Allen. Stop alle riprese, fine dei film. Un’epoca – cominciata nel 1969 – in cui produceva una pellicola all’anno e che arriva al suo termine.

Sarebbe un effetto degli effetti del coronavirus: la pandemia ha fatto chiudere i cinema di New York (tutti, in realtà, ma lui adora quelli), non ci sono programmazioni previste e il rischio che le persone si abituino all’home video è alto. Tutto questo «potrebbe avere un effetto negativo su di me», spiega al Financial Times in occasione dell’uscita in streaming del suo film “Un giorno di pioggia a New York”, in netto ritardo rispetto al resto d’Europa.

«Le persone vorranno film per la televisione. Ma io quelli non li voglio fare. Per cui potrebbe essere che smetta di farli del tutto».

Questo il ragionamento. Cui si aggiunge una certa amarezza: aveva una sceneggiatura già pronta da girare a Parigi, ma è saltato tutto. «Colpa del virus».

E adesso? Si potrebbe anche arrendere. «Ho 84 anni e presto sarò morto. Se anche scrivessi il miglior copione del mondo non ci sarebbe nessuno a produrlo. Per cui che incentivo avrei a continuare?».

Lui era abituato a finire di scrivere, strappare il testo dalla macchina, correre a cercare finanziatori, fare il casting e poi girare. «Ho fatto così per anni e anni, sempre allo stesso modo. Un processo piuttosto semplice. Ma adesso, non funziona più. Cosa dovrei fare?»

C’è anche un altro problema. Dopo lo scoppio del #metoo negli ultimi tre anni, Woody Allen è diventato radioattivo.

Sono tornate alla ribalta le vecchie accuse di molestie sessuali nei confronti della figlia adottiva Dylan Farrow – una storia degli anni ’90 rilanciata nel 2014 dal fratellastro Ronan Farrow, penna delle principali inchieste contro Harvey Weinstein. E le risposte piccate del regista, l’autodifesa e infine l’autobiografia, non sono servite a niente. Gli scandali restano appiccicati.

Timothée Chalamet, uno dei protagonisti di “Un giorno di pioggia a New York”, ha disconosciuto i film. Rebecca Hall anche. Greta Grewig, insieme a Colin Firth, hanno detto che non lavoreranno mai più con lui.

E se una volta c’era la fila per partecipare a un lavoro di Woody Allen, e tanti erano disposti anche a farsi pagare la metà, ora è il deserto (o quasi).

Per realizzare “Rifkin’s Festival”, il suo ultimo (latest, ma forse anche last) film, girato tutto in Spagna, è stato necessario rivolgersi a due attori europei: la spagnola Elena Anaya e il francese Louis Garrel.

Nel frattempo, a difendere il regista si sono levate poche, isolatissime voci: Scarlett Johansson, Kate Winslet tra queste.

Ma non è bastato. Ci sono critici che non vogliono recensire i suoi lavori. Giornali che non vogliono intervistarlo. Redattori di case editrici pronti a protestare (è successo all’Hachette) quando è emerso che sarebbe stata pubblicata la sua biografia. Un veleno che raggiunge perfino i suoi ammiratori: Jason Solomons, autore dell’intervista ma soprattutto di un libro su tutti i film di Woody Allen, è diventato «un mostro».

Bloccato e boicottato. Ci si è messo anche il virus: oltre a frenare ogni lavoro, gli ha portato via il vecchio amico Eddie Davis, con cui suonava jazz ogni settimana da anni.

Forse anche per questo – e un po’ per nostalgia – non farà niente a tema Covid. «Non è il tipo di cose su cui scrivo bene. Un film del genere va bene per la televisione, dove si fa satira o si drammatizza. Ci saranno tantissime commedie sulla pandemia e alcune saranno orribili, ma altre anche intelligenti, vere e divertenti. Ma non per me». È stato tutto troppo spaventoso, «mi sono nascosto sotto il letto. Sono inutile, spreco le mie giornate, aspetto che tutto finisca».

Ma sul piano artistico non demorde. Di fronte alle accuse di chi vede, nel suo lavoro, scene che ricordano atteggiamenti predatori tra maschi e femmine, rilancia: «Non scriverei mai un film dettato o influenzato da movimenti e opinioni. Scrivo soltanto quello che secondo me è una situazione comica per un particolare gruppo di personaggi». Fine.

O quasi. Perché se chiuderà con il cinema, non vuol dire che smetterà di lavorare. Ha già pronti due copioni per il teatro, «una commedia e un’opera». Alla faccia degli hater.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club