La cosiddetta Commissione contenziosa del Senato non ha affatto reintrodotto i vitalizi. Ha cancellato la retroattività della norma per gli ex parlamentari. È una cosa diversa. Si può discutere tutto, persino su un principio del diritto come quello che esclude appunto la retroattività di una norma in pejus, ma su una cosa non è lecito discutere: del dovere di chiamare le cose col proprio nome.
E dunque sbaglia Nicola Zingaretti quando si accoda alla vulgata secondo la quale «si sono reintrodotti i vitalizi» (stesse parole poi usate dai deputati dem, quindi è proprio una linea comunicativa e non uno strafalcione del segretario).
Il fatto è a suo modo storico. Probabilmente mai in modo così evidente il Partito democratico ha mostrato di subire in modo addirittura letterale l’egemonia grillina, facendo clamorosamente cadere il muro che separa la verità dalla demagogia, quel muro che anche in passaggi ben più drammatici la sinistra ha cercato sempre di tenere eretto per mettere al riparo la politica dai suoi carnefici. Mai la confusione del linguaggio grillino con quello dei democratici era apparsa con tutto il suo carico di disprezzo per le parole di verità.
In questo discorso il merito della questione non c’entra. Il senatore Luigi Zanda vede nella decisione dell’altra notte un attacco al Parlamento anche se poi lui stesso accetta che si riduca a furor di popolo il numero dei parlamentari, però ha ragione a criticare un’aria del tempo qualunquista e demagogica: ma glielo spiega lei, senatore Zanda, al suo capocorrente Dario Franceschini, che questa ariaccia è il portato della sottocultura di quei Cinque stelle con cui si vuole stringere un’alleanza strategica?
Ed è inoltre paradossale che l’egemonia grillina si riaffermi mentre il partito di Vito Crimi si va liquefacendo nelle sabbie mobili proprio del Senato (dove ormai la maggioranza si regge su qualche peones e, con tutto il rispetto, sui senatori a vita) e soprattutto si va diradando nel Paese, come voti, come presenza, come influenza.
Il Movimento è stato infatti distrutto da Luigi Di Maio quando ne era “capo politico”. Nessuna idea del Movimento cinque stelle di questi anni si è rivelata buona, dai navigator al no-Tav a tutto il resto. Però la mistica dell’anti-casta funziona ancora, piacendo a Zingaretti come a Giorgia Meloni e Matteo Salvini.
Forse non inavvertitamente il leader del Partito democratico è stato lestissimo nel saldare la sua posizione (venata da un tocco “di sinistra”, con un richiamo alla cassa integrazione che non c’entra niente ma serve per eccitare gli animi) a quella di Di Maio, Sibilia e Taverna, come se avesse assunto nella sua mente un simul stabunt simul cadent che va persino al di là dell’alleanza strategica perché fa suo il messaggio anti-casta criticato per anni dai dem “di prima”.
È una sindrome di Stoccolma spiegabile con il terrore che senza i Cinquestelle si perderanno le regionali in 4 regioni su 6 e si smarrirà del tutto lo stesso governo Conte, ultima ciambella di salvataggio prima di un temibile naufragio sulla costa del Papeete, dove ad agosto tornerà un Salvini in modalità elettorale, che poi è l’unica che gli si attaglia.
Ma forse la questione è più seria ancora. E riguarda l’assimilazione di un linguaggio, di un canone interpretativo della realtà, di una tecnica di manipolazione del consenso che dalla bocca di un anziano comico ha sparso le goccioline della malapolitica infettando l’organismo del Partito democratico, come un Covid populista che non si può, o non si vuole, debellare e che per questo torna di continuo.