Lost in translationLo strano caso dei bambini sottratti ai genitori europei in Giappone

Ogni anno sono almeno 150 mila i ragazzi che vengono separati dal padre o dalla madre cittadini Ue. Tra questi ci sono anche 15 italiani come Tommaso Perina, manager che vive da anni a Tokyo che ha raccontato a Linkiesta il dramma di non poter vedere i suoi figli da più di mille giorni

Afp

«Il numero di casi di sottrazione di minori in cui un genitore è cittadino europeo e l’altro giapponese è in crescita ed è allarmante». Il Parlamento di Bruxelles ha votato una risoluzione con cui si impegna formalmente ad aiutare i tanti genitori europei a rivedere i loro figli, portati via dai coniugi giapponesi.

Secondo l’associazione Kizuna, ogni anno sono almeno 150 mila i bambini che vengono separati dal padre o dalla madre e tra questi ci sono anche 15 genitori italiani come Tommaso Perina, manager che vive da anni a Tokyo ma che non vede i suoi figli da più di mille giorni.

Una questione complessa, che affonda nella cultura e nella storia giapponese e che l’Europa ha finalmente deciso di prendere di petto chiedendo al Giappone il rispetto delle norme internazionali, visto che il Paese nipponico ha aderito alla convenzione dei diritti del fanciullo dal 1994 e ha firmato la Convenzione dell’Aia sugli aspetti civili della sottrazione dei minori nel 2014. 

La risoluzione del Parlamento europeo, firmata dalla deputata del Partito Popolare Dolors Montserrat che guida la commissione per le petizioni, non ha obblighi vincolanti ma ha un forte valore politico. Come dimostra l’articolo 21, che obbliga testualmente «gli Stati membri a informare, attraverso i loro ministeri degli esteri e i siti web delle ambasciate in Giappone, in merito al rischio di sottrazione di minori nel paese e al comportamento delle autorità giapponesi in materia».

Una denuncia grave, alla quale Tokyo ha risposto dicendo di aver restituito 29 bambini in 35 dispute avvenute negli ultimi 6 anni e di averne tenuti soltanto tre nel Paese. La battaglia politica va avanti già da molti mesi. Nel 2019 26 ambasciatori degli Stati membri dell’Unione presenti in Giappone hanno scritto una lettera al ministro della giustizia giapponese per chiedere il rispetto delle regole internazionali. Lo stesso hanno fatto il presidente francese Emmanuel Macron e il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte, che hanno chiesto direttamente al premier Shinzo Abe di tener fede agli impegni presi.

«Purtroppo, la risoluzione del Parlamento lede la credibilità del Giappone ma concretamente non prevede nessuna sanzione», racconta a Linkiesta Tommaso Perina, padre di Marcello e Sofia, rispettivamente 7 e 5 anni, presi dalla madre nel 2016 e portati a Sendai, città dove vivono i suoi genitori e distante 6 ore di macchina da Tokyo. La sua storia è simile a quella di altri padri, come Vincent Fichot, Emmanuel De Fournas, Scott, McIntyre e Jeffery Morehouse che hanno visto i loro figli portati via dalle madri da un giorno all’altro.

Un giorno che non hanno mai dimenticato, perché da allora non li hanno più potuti rivedere visto che in Giappone non è previsto l’affido condiviso. Infatti, secondo il costume nipponico, quando una coppia divorzia la famiglia si scinde e i figli, considerati proprietà dei genitori, rimangono soltanto con uno di essi. Questa tradizione vorrebbe preservare i figli dallo stress di avere una “doppia vita” ma spesso li priva di una figura genitoriale che probabilmente non rivedranno più, visto che l’80% dei figli di coppie separate non riesce a incontrare più l’altro genitore.

«Un’usanza inaccettabile, visto che il Giappone ha firmato degli accordi internazionali che lo obbligano a recepire le norme internazionali in materia di diritti del minore», sottolinea Perina, che ormai non vede i suoi figli da quasi tre anni. «L’ultima volta li ho visti ad agosto 2017: è stato un incontro di appena due ore, chiuso in una sala sorvegliata dall’avvocato di mia moglie. Niente foto, niente regali. Da allora non sono più stato in grado di vederli e non so più niente di loro, nonostante io sia ancora formalmente sposato e abbia la patria potestà. Anche l’Alta Corte mi ha dato ragione e mi dà il diritto di vederli ma se provo ad avvicinarmi ai miei figli rischio di essere arrestato, nel migliore dei casi». 

La storia dei piccoli Marcello e Sofia è la stessa di Tsubasa e Kaede, Claire e Mochi, bambini vittime di un sistema che non riesce a scindere i casi di violenza domestica dai divorzi. Non è un caso che in tutte queste storie ci sia sempre un’accusa di violenza alla base del divorzio, che spesso però si rivela inventata e costringe l’accusato ad aspettare anni prima di stabilire la verità. Una volta accertata però i tribunali non danno comunque ragione ai genitori esclusi, in quanto il partner viene considerato più coinvolto nell’educazione e nella crescita del bambino.

«A volte preferisco pensare che mio figlio sia morto, così soffro di meno», ha raccontato un padre francese al giornale francese Paris Match. «Questa battaglia andrà ancora avanti», assicura Perina, «io e Vincent Fichot, stiamo portando avanti una raccolta fondi per continuare la nostra battaglia e portare la causa davanti alla Corte di Giustizia Europea. Fin quando non potremo rivedere i nostri bambini non molleremo». 

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