Il Giappone ha chiuso lo stato di emergenza nazionale con “solo” 16.724 infezioni e 894 morti per Covid-19. Il Paese di Shinzo Abe è stato tra i primi a essere colpiti dall’epidemia a causa dei suoi stretti legami con la Cina e il suo primo caso di contagio risale al 15 gennaio.
Nonostante questo, il modello giapponese contro il coronavirus è stato improntato su pragmatismo e senso civico da parte del popolo, che ha sopperito ad alcune mancanze del governo (il consenso di Shinzo Abe è crollato ai minimi storici).
Il governo è accusato infatti di essere stato lento a chiudere le frontiere e poco incisivo nelle restrizioni, anche se il Paese è tra i primi ad avere imposto la chiusura totale delle attività e i divieti di affollamento.
Le scuole hanno chiuso i battenti a marzo e, secondo molti, il popolo giapponese ha reagito in maniera tempestiva, avvantaggiato anche dal fattore culturale, che ha limitato il contatto fisico e impone da sempre di togliersi le scarpe al momento di entrare in casa.
Ma cosa ha inciso realmente nel modello giapponese? Capace, per giunta, di scongiurare una strage, visto che quasi il 30% dei cittadini giapponesi ha più di 65 anni, proprio la fascia demografica in cui la mortalità del Covid-19 è più alta.
«In un modo tipicamente giapponese, abbiamo quasi tenuto sotto controllo questa epidemia nell’ultimo mese e mezzo» ha detto Shinzo Abe. Dichiarazioni che si legano alle credenze di una gran parte del popolo di aver sconfitto il virus grazie «a poteri magici».
In realtà i fattori che hanno inciso sul risultato finale sono altri: una speciale strategia di tracciamento dei contatti, la consapevolezza iniziale che ha portato una reazione positiva da parte dei cittadini giapponesi e la tempestiva dichiarazione di stato di emergenza.
Senza alcuna istruzione ufficiale, i cittadini hanno infatti iniziato a sterilizzarsi le mani, indossare mascherine e mantenere le distanze sociali da soli. «Tutti indossavano maschere per proteggersi, ma il vero effetto era ridurre la diffusione da parte dei portatori asintomatici di Covid-19», ha affermato Satoshi Hori, professore alla Juntendo University, al Financial Times. «Potrebbe essere stata fortuna, ma ha fatto la differenza».
Il Giappone ha inoltre utilizzato un approccio particolare per monitorare il contagio. La maggior parte degli altri paesi colpiti dal virus ha adottato la cosiddetta “traccia potenziale”, mentre il Giappone ha utilizzato una traccia di contatto retrospettiva approfondita per identificare le comuni fonti di infezione.
Nella traccia potenziale i contatti stretti di un caso Covid-19 sono monitorati in modo da poter essere messi in quarantena se mostrano sintomi. L’approccio giapponese cerca invece di scoprire dove sono stati infettati, che si tratti di una discoteca o di un ospedale, e quindi di monitorare le persone che hanno visitato quel sito.
Dal 13 maggio il governo di Abe ha optato anche per l’impiego di nuovi kit per la rilevazione degli antigeni del coronavirus che consentono di ottenere una diagnosi in soli 15-30 minuti. L’obiettivo delle autorità giapponesi è di aumentare il regime dei test e rispondere alla domanda di metodologie di diagnosi più semplici e rapide.
Il contenimento iniziale dell’epidemia ha aiutato la sfera politica a dichiarare lo stato di emergenza al momento giusto, quando il numero di casi era ancora gestibile. Lo stato di emergenza, a differenza di altri modelli, non ha costretto le persone a rimanere a casa, bensì sono stati gli stessi cittadini a rispettare la richiesta.
«Poiché mancavano i test, non potevano impedire la crescita esponenziale a Tokyo e nelle grandi città», spiega ancora Hori al giornale britannico. Sottolineando poi che è ancora presto per abbassare la guardia: «È ovvio che il virus sta ancora circolando. La prossima ondata arriverà sicuramente e dobbiamo prepararci».
Nelle ultime 24 ore il numero di nuovi casi nel Paese è salito a 52, il più alto in due settimane. Shinzo Abe sta pensando quindi di prendere a esempio i modelli di Taiwan e Corea del Sud, che hanno risposto meglio del Giappone grazie alla loro esperienza con i virus Sars nel 2003 e Mers nel 2015.