Un cosmo collettivoTutti possiamo diventare newyorkesi 

Il libro di O. Henry racconta Manhattan non come una semplice città ma come uno stato emotivo. Dove i vizi diventano ipertrofici, ma le idee e lo sguardo sul futuro riescono a nascere con più facilità

New York non è una semplice città, è un macro cosmo collettivo dove di incrociano milioni di storie che si mescolano tra di loro in un gigantesco melting pot narrativo. Tantissimi autori hanno parlato di New York e dei suoi ospiti (chiamarli abitanti sarebbe molto riduttivo). Da Fitzgerald a Lethem, passando per Tom Wolfe e Bret Easton Ellis, in tanti e tante hanno centralizzato le loro storie all’interno della Grande Mela che ha un ruolo fondamentale che va oltre a quello puramente scenografico e si trasforma in personaggio.

Se «il Texas è uno stato d’animo», come diceva John Steinbeck, allora New York è uno stato emotivo, un grande romanzo fatto di tantissimi racconti capaci di creare un moto perpetuo di avvenimenti e avventure. O. Henry (1862 – 1910) trova dentro questa enorme metropoli il tessuto per creare una grande favola suddivisa in capitoli, qualcosa da far indossare ai suoi personaggi come se fossero abiti sartoriali che calzano perfettamente.

Forse New York non si può raccontare ma solo vivere ed è per questo che “Come diventare Newyorkesi” (titolo del libro edito da Mattioli e anche del primo racconto di questa antologia) sembra quasi un manuale non didascalico in cui la narrativa è il mezzo per farci capire cosa significhi davvero questa città, con tutta la sua magia ma anche il suo potere ipnotico e pericoloso, un demone tentatore che ti può trascinare dentro la perdizione o il rigetto (è successo persino a Philip Roth).

New York è così: sembra di tutti, ma non è realmente di nessuno. Questi racconti trasudano di un amore puro e incondizionato – e per questo a volte cieco – per quello che è l’essenza della Grande Mela. O. Henry ci arriva a quarant’anni, senza niente a parte la sua ambizione e il suo talento riuscendo a diventare una stella dell’ambiente letterario con le riviste pronte a contenderselo pur di avere un suo racconto.

Eppure la sua personale versione del sogno americano durerà molto poco e diventerà presto un incubo alcolico, come nella miglior tradizione del rapporto tra artista e le sue maledizioni. Ma in questo breve lasso di tempo – circa otto anni – riuscirà a essere, con un po’ d’anticipo, la parte complementare di quello che riuscirà a fare Fitzgerald anni dopo parlando dell’alta borghesia.

Infatti O. Henry racconta le persone comuni – antieroi, nel senso più ampio del termine -, impiegati, cameriere, broker e stenografe (il racconto che li riguarda è davvero un piccolo gioiello). I suoi racconti sono pregni di poesia e riescono a farci capire una realtà spesso nascosta dal modo comune e patinato di raccontare la città. Non guarda New York da un attico ma cammina nelle strade di fianco alle persone e ce le presenta per darci il benvenuto e far sentire anche noi, almeno durante la lettura, un po’ newyorkesi.

New York spesso diventa il centro della vita di tutti – lo è stato, per esempio, in maniera tragica l’11 settembre – e rappresenta gran parte del mondo occidentale, nel bene e nel male. I vizi diventano ipertrofici, ma anche le idee e lo sguardo sul futuro riescono a nascere con più facilità come se quelle strada siano pregne di qualcosa di magico. Nessuno (almeno tutti lo speriamo) penserebbe mai di distruggere la statua che ci dà il benvenuto perché non rappresenta una persona fisica, ma la condizione di cui ogni individuo dovrebbe godere: la libertà.

L’ultimo racconto si intitola “La signora lassù” e inizia così: «Dicono che New York City fosse deserta, e questo, senza dubbio, contribuiva a far sì che i suoni si propagassero per grandi distanze», letto in questi giorni fa quasi paura. D’altronde guardare New York significa guardare il futuro e O. Henry questo l’aveva capito molto bene. 

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