Quando a giugno 2019 Beppe Sala pubblica sul suo profilo Instagram la foto coi calzini arcobaleno smette di essere solo un sindaco e inizia a esistere anche come influencer. Ma un sindaco rappresenta la città che amministra, un influencer rappresenta sé stesso. Questa combinazione fa sì che Beppe Sala sia il primo caso italiano di sindaco che su Instagram riesce allo stesso tempo a rappresentare sé stesso e la città che amministra, cioè Milano. Scatto dopo scatto, ha definito un nuovo ideale estetico di politico italiano di sinistra, finalmente anche mainstream e pop, lontanissimo dall’estetica alla Berlinguer e più vicino a quella obamiana. Si è fatto “brand ambassador” dei valori del “brand Milano” quali l’internazionalità, la produttività, il multiculturalismo.
Ma poi è arrivato il virus e, come sono entrati in crisi i normali influencer, così è entrata in crisi anche la rappresentazione social di Beppe Sala e della sua città. All’improvviso, lo scollamento tra fiction e realtà era chiaro anche agli elettori-stan più adoranti. Michele Masneri, in un articolo dell’anno scorso che gli era costato molte critiche, aveva scritto che «Milano ha un problema, e Beppe Sala col suo profilo Instagram è parte del problema».
La sua percezione, condivisa da parte dell’opinione pubblica, è che Milano fosse diventata una città che esiste solo in quanto fiction, estremamente realistica, iper-dinamica e aspirazionale, ma avesse perso del tutto aderenza con la realtà e che i suoi cittadini fossero convulsamente impegnati a portare avanti un reality, più che a rendersi conto della realtà in cui vivono, fatta di traffico, affitti e bambini da portare a scuola.
È il 27 febbraio 2020 quando Beppe Sala pubblica sul suo profilo Instagram una foto mentre brinda con Alessandro Cattelan, inserendo nella didascalia l’infausto hashtag #milanononsiferma. Da quel momento, i problemi smettono di essere occasioni e anche le occasioni, così come i post su Instagram, diventano dei problemi. È lì che Beppe Sala perde lo scettro di sindaco più amato in assoluto dai social media, ma si conferma come influencer con innata capacità di “rompere l’Internet” che, come la telegenia, è una dote naturale.
Seguono una serie di “fail” che culminano con le dichiarazioni sullo smart working e poi sulla statua di Montanelli, entrambi trattati sui social non tanto come temi politici da discutere, ma più come trigger su cui indignarsi. Dov’è finito quel Beppesala che esibiva borracce plastic-free, le felpe col logo Netflix, i libri feticcio della “bolla” (Sally Rooney, Philip Roth), le sue foto private o con personaggi pop come Alexandria Ocasio-Cortez e Ghali?
Quella bolla sui social, costituita essenzialmente da lavoratori del terziario, content curator, giornalisti freelance e social media manager, attenti a tematiche sociali ed ecologiche, che avevano eletto il sindaco di Milano a rappresentante politico dei valori della sinistra, all’improvviso si è vista tradita da una serie di dichiarazioni dissonanti, non in linea col pensiero unico della bolla stessa.
«Ma Beppe Sala non ce l’ha un amico?» è il commento che ultimamente viene ripetuto più spesso, intendendo che al sindaco serve qualcuno che gli dica quando smettere di postare. Il fatto è che la reputation su Internet si gestisce con un intero apparato, come quello che sta dietro a Salvini, con team che lavorano 24 ore al giorno e tool che intercettano i trend e danno come responso quale argomento approfondire e quale invece ignorare.
Se Beppe Sala avesse avuto più coscienza di sé in quanto influencer, fosse stato cioè più Chiara Ferragni che sindaco, invece di impelagarsi sulla statua di Montanelli sarebbe sceso al parco sotto casa con look, mascherina nera e cartello “Fuck racism” in sostegno del movimento Black lives matter.
Per un influencer è molto importante abbracciare cause giuste, ma più sono lontane e quindi idealizzabili, meglio è. A quanto pare, invece, il profilo Instagram di Beppe Sala è stato aperto «per gioco» durante l’Expo, e poi sempre per divertimento – «per cazzeggiare» – è stato portato avanti, in maniera «del tutto artigianale», come confermato da Stefano Gallizzi, il portavoce di Beppe Sala. Se i profili di Facebook e Twitter sono curati da un’agenzia di comunicazione esterna, che però non si occupa di monitorare i trend e il sentiment, «le password del profilo Instagram Beppesala ce le ha solo Beppe Sala».
Inoltre, «è lui che risponde ai messaggi diretti, è lui che si scrive le didascalie e modera i commenti», perché «lo aiuta a essere in contatto con la gente». Le foto vengono scattate con lo smartphone da Gallizzi stesso, oppure fatte in casa. Raramente usa foto professionali, di solito per momenti istituzionali, come quella tra le guglie del Duomo e con le Frecce Tricolori nel cielo. La stessa foto che poi ha rinnegato in un’intervista con la Lucarelli, in quanto percepita dai commentatori come troppo autoreferenziale.
È molto probabile che il successo del profilo Instagram di Beppe Sala sia dovuto a questa artigianalità ed estrema trasparenza, oltre appunto alla sua innata capacità di “rompere l’internet”. Il sospetto è che alla domanda “cos’è che colpisce di lei” probabilmente risponderebbe “sono semplicemente me stesso” come dicono tutti gli influencer.
Eppure, a giugno 2019 aveva 70mila follower mentre oggi ne ha 228mila. In un anno ha triplicato la sua fanbase, raggiungendo Matteo Renzi, unico politico di sinistra in grado di competere su Instagram con le fanbase dei politici di destra. La media dei like a post di Beppe Sala, però, è di 13mila, quella di Renzi si ferma a 3mila.
Un engagement impressionante, comparabile a profili di politici italiani che su Instagram raggiungono il milione di follower, come Giuseppe Conte e Matteo Salvini. E nonostante i “social media fail”, secondo il sondaggio “governance poll” pubblicato dal Sole 24 Ore, l’indice di gradimento di Beppe Sala è in crescita, così come il profilo “Le bimbe di Beppe Sala”, che galoppa verso i 5mila follower. Il sindaco tra l’altro ha particolare cura anche delle sue stan: come ci ha raccontato Gallizzi «si è scritto con le sue Bimbe che alla fine sono andate a trovarlo a palazzo».
In molte interviste Giuseppe Sala ha dichiarato che #milanononsiferma è stato «un errore di valutazione», che «non pensava», «non poteva saperlo». Chissà se avrà davvero cambiato la sua linea, se ancora pensa «se vogliono fermarsi, lo facciano ad Avellino». Nel frattempo, la sua fanbase chiede meno autoreferenzialità, che «torni a fare il sindaco» ma anche «a parlare di meno». Chissà se il sindaco è pronto al salto di qualità anche sui social e quindi alla ricandidatura.
Intanto, concede interviste selezionate dove si dichiara provato («Dormo male e soffro»), e con dei rimorsi («Se tornassi indietro, parlerei meno»). Beppe Sala, nato nel 1958, ha un’ingenuità da boomer nella gestione dei suoi account social ma nasconde un temperamento da millennial. Per risalire la china alla fine non dovrà fare molto, solo mostrare una nuova consapevolezza di sé stesso dopo il fallimento, essere empatico, magari rifare da capo il Cammino di Santiago, dove trovò l’illuminazione necessaria per candidarsi la prima volta, scegliere hashtag migliori.
Se volesse esagerare, potrebbe dare l’Ambrogino d’oro a Chiara Ferragni, commentare con “Ok, boomer” sotto un qualsiasi post di Salvini, suggerire di spostare la statua di Montanelli ad Assago. Non servirà parlare meno, basterà solo postare meglio.