Lo scorso 19 luglio un tweet (poi rimosso) della popstar Dua Lipa ha generato polemiche tracimate ben oltre la cerchia dei suoi fan. La cantante britannica di origini albanesi-kosovare, il cui ultimo album si intitola Future Nostalgia, ha condiviso un’immagine della “Grande Albania”, il progetto politico che mirerebbe (o mirava) a includere tutti gli albanesi dei Balcani in un unico Stato, corredata dalla parola “autoctoni”. Un richiamo al diritto naturale di cui godrebbero gli albanesi in quanto popolo indigeno della penisola rispetto ad altre comunità (non esplicitamente menzionate).
Oltre che in Albania e Kosovo, anche in Macedonia del Nord, Montenegro e Grecia sono presenti comunità albanofone. Secondo i sostenitori dell’ideologia pan-albanista, l’Albania dovrebbe espandersi fino a inglobare tutti i territori in cui abitano queste minoranze, sottraendoli agli Stati limitrofi.
L’unico momento in cui tale scenario pareva potersi concretizzare è stato la guerra di secessione del Kosovo dalla Serbia (1998-99). Prima e durante il conflitto alcuni settori dell’Uçk – la formazione paramilitare che lottava per l’indipendenza kosovara, con diramazioni anche fuori dai confini serbi – e una fetta della popolazione coltivarono il sogno di unirsi all’Albania e fondare finalmente una patria comune per tutti i connazionali.
Rispolverare i simboli della Grande Albania equivale quindi anche a esibire il proprio supporto alla causa del Kosovo, uno Stato che, a dodici anni dalla proclamazione (unilaterale) dell’indipendenza da Belgrado, si regge ancora su fondamenta estremamente fragili.
La sua sopravvivenza dipende in toto dall’interessamento degli Usa, che garantiscono a Pristina il vitale ombrello militare; non è riconosciuto da circa metà degli Stati rappresentati all’Onu (tra cui cinque membri Ue); soffre di un’emigrazione consistente e costante, espressa anche sotto forma di richiesta di asilo politico, poiché i cittadini kosovari ancora necessitano del visto per circolare in Unione europea; la sua classe politica è in larga parte composta da ex guerriglieri dell’Uçk, tra cui il presidente Hashim Thaçi, al momento sotto processo per crimini di guerra presso la Corte internazionale di giustizia.
Una somma di elementi che rendono il Kosovo quasi ininfluente sulla scena globale. Per sopperire parzialmente al proprio scarso peso diplomatico, Pristina ha allora trovato nella diaspora kosovaro-albanese il megafono delle proprie istanze, in particolare grazie alla notorietà acquisita da alcuni suoi illustri membri.
L’autrice di “Break my heart”, che ha in seguito lamentato di esser stata malinterpretata, non è certo la prima personalità di nazionalità (o cultura) albanese – di prima o seconda generazione – che si è prestata a dar voce a rivendicazioni nazionaliste.
All’incontro tra Svizzera e Serbia durante i mondiali di calcio del 2018 in Russia, ad esempio, sia Granit Xhaka – nato in terra elvetica da genitori serbo-albanesi – che Xherdan Shaqiri – nato nella kosovara Gjilan poi naturalizzato svizzero – celebrarono le rispettive reti (il pareggio e il gol della vittoria al novantesimo) incrociando i polsi con il dorso di entrambe le mani aperto a simulare un’aquila bicefala, simbolo nazionale albanese. In quella partita, quattro titolari sui undici della selezione svizzera – oltre ai due marcatori, anche Valon Behrami e Blerim Džemaili – erano di origine albanese: ambasciatori, volenti o nolenti, dell’albanesità nel mondo, così come le cantanti Dua Lipa, Rita Ora e Bebe Rexha.
Gli albanesi non sono di certo i soli nell’Europa sudorientale ad aver convertito, sia a livello di autorità che a livello di singole personalità, musica e sport in veicoli di promozione ideologica.
Per il primo ambito, basti richiamare i casi del cantante croato Marko Perković Thompson, o della musicista turbofolk serba Ceca, moglie di quello Željko Ražnatović detto Arkan che capeggiò uno più feroci tra i gruppi paramilitari coinvolti nelle operazioni di pulizia etnica durante il conflitto in Bosnia Erzegovina, soprannominato appunto “Le tigri di Arkan”.
In ambito sportivo, ricerche come quelle di Dario Brentin hanno illuminato la funzione che il calcio ha giocato come propagatore di messaggi nazionalisti nell’area ex jugoslava almeno a partire dalla fine degli anni ‘80 e durante il conflitto che portò al collasso della Federazione socialista nel decennio successivo, deflagrato simbolicamente proprio sul rettangolo verde.
Questi esempi suggeriscono come il progetto della “Grande Albania” non sia che una delle iniziative ultranazionaliste che hanno imperversato nella penisola balcanica, regione storicamente caratterizzata da alti tassi di multietnicità e commistione intercomunitaria, difficilmente districabili dal potere centrale senza ricorrere a violenze di scala.
Quasi tutti gli Stati costituitisi grazie all’erosione prima e al crollo poi degli imperi (austro-ungarico, ottomano, zarista) che si erano contesi i Balcani per secoli si sono infatti cimentati in campagne politico-militari finalizzate a incorporare tutte i territori in cui i membri del gruppo etnico fossero maggioranza (almeno relativa), o potessero diventarlo con operazioni di pulizia etnica ben congegnate. Negli ultimi due secoli si è dunque vaticinato di Grande Bulgaria, Grande Serbia, Grande Croazia o di dorsale verde, il fantomatico piano che mirava a riunire tutti i musulmani dei Balcani.
Questo sebbene nella regione vivessero e continuino a vivere numerose minoranze nazionali, vittime spesso dimenticate delle ambiziose grandeur delle maggioranze organizzate. Che, attingendo sia al passato prossimo che a quello remoto, possono – senza badare troppo a quisquilie storiografiche – rivendicare un genocidio, o una qualche forma di sopruso sistemico, inflitto loro da parte di altri gruppi nazionali – o meglio, da élite espressione di quel gruppo nazionale – che funga da giustificato motivo per le proprie aspirazioni territoriali.
Opportunamente rimaneggiata, la memoria di qualunque tragedia può così tramutarsi in una cambiale da riscuotere presso i vicini. Così nel repertorio serbo si commemora la battaglia di Kosovo Polje (1389); in quello croato, il massacro di Bleiburg (1946); in quello bosgnacco-musulmano, il genocidio di Srebrenica (1995). E quasi tutte le popolazioni balcaniche possono vantare un trattato tra grandi potenze – il Trattato di Santo Stefano (1878), quello di Londra (1913) o gli accordi di Dayton (1995) – che le avrebbe danneggiate a beneficio dei rivali, autolegittimando le proprie rivendicazioni espansionistiche.
Essendo speculari e opposti, questi progetti si sono da sempre rafforzati mutualmente. Il perseguimento di uno fornisce la scusa ad altri per intraprendere lo stesso tipo di operazioni, scatenando una spirale di vittimismo, revanscismo e violenza le cui scintille fanno sporadicamente ancora divampare qualche focolaio.
Ad ogni modo, che dal campo militare queste pulsioni si siano oggi trasferite nei campi di calcio, negli studi di registrazione e sui social network può essere considerato un fattore positivo per la stabilità di questi paesi e quindi del resto del continente europeo.
Le provocazioni salaci consumate a colpi di esultanze, tweet e ritornelli tradiscono infatti un dato incontestabile: oggi la fattibilità concreta della prospettiva panalbanista e di qualunque altra ambizione espansionista che possa emergere nei Balcani è pressoché nulla. La Grande Albania è soltanto uno spettro, nessuna forza politica ispirata al nazionalismo albanese accarezza realisticamente questo anelito.
La maggioranza degli Stati della regione, tra cui Albania, Macedonia del Nord, Grecia e Montenegro, sono membri Nato, una garanzia di stabilità al momento praticamente incontestabile.
L’Ue ha inoltre vincolato l’accesso dei sei Stati balcanici alla risoluzione dei contenziosi che ancora li separano, come nel caso del dialogo Belgrado-Pristina, per evitare di importare animosità irrisolte che ne minerebbero ulteriormente la coesione. Serbia, Montenegro, Macedonia del Nord, Albania, Bosnia Erzegovina e Kosovo non potranno unirsi a Bruxelles se prima non avranno, almeno giuridicamente, appianato le divergenze che li separano.
Ad uno smaliziato orecchio occidentale avvezzo alle identità globali, mutevoli e post-nazionali, questi contenziosi balcanici – legati a terra, sangue e lignaggio – potranno suonare anacronistici, quasi un tratto tipico di quella violenza primordiale e atavica che albergherebbe intrinsecamente nell’homo balkanikus, secondo lo stereotipo identificato nel classico di Maria Todorova “Imagining the Balkans” (1997).
Tuttavia, distillato nei suoi elementi primari, il fenomeno effonde un odore più familiare e meno esotico: imbarcatisi più tardi nei processi di nazionalizzazione della popolazione rispetto agli omologhi occidentali, che andarono di pari passo con la diffusione della modernità, i più giovani Stati della metà orientale del continente sono ancora alle prese con lo sforzo di creare società sostenibili, ovvero pacificamente multietniche, integrate e tolleranti.
Se fino a tempi recenti negli Stati più progrediti di quel Vecchio continente che ponderava un’evoluzione in senso cosmpolita questo obiettivo poteva dirsi sostanzialmente centrato, il favore che messaggi sovranisti e identitari incontrano attualmente potrebbe tramutare le tormentose vicende dei nostri vicini orientali, da risibile relitto di un passato archiviato, in vagiti flebili di una nuova Europa rifeudalizzata.