Copenhagen, 1995. Il cinema europeo si rivolta all’industria. Nasce Dogma. Manifesto artistico tra i più citati e meno applicati. Film di negazione, una sorta di dieta che toglie al grande schermo i teatri di posa, la musica, gli effetti speciali e persino il nome del regista. I suoi autori però, pochi ma buoni, li conosciamo. Primo tra tutti Lars Von Trier. L’idea è porre un freno a un cinema sempre più spettacolare e lontano dal vero. La Danimarca torna fucina di riflessione artistica.
Fino agli anni ’10 del secolo scorso, il paese ricordato per i suoi lunghi inverni bui è centro di importanti studi sulla luce. Scie luminose segnano la via di un nuovo cinema che arriva sino a noi. Anche se forse lontano dal diniego dello spettacolo. E infatti Dogma 95 scompare presto dagli schermi. Seppure ne resti un tracciato da molti ancora battuto. Quando leggiamo di Iñárritu che per “The Revenant” porta DiCaprio a cavallo tra Canada e Stati Uniti a girare sul luogo scene senza luci artificiali siamo proprio in quel solco.
A ereditare i dettami, per stravolgerne direzione, è il figlio dell’assistente alla regia di Von Trier. Si chiama Nicolas Winding Refn, e prima di arrivare ai film con Ryan Gosling esordisce nel ’96 con un film su (e contro) Copenhagen. In “Pusher”, la capitale è quanto di meno attraente si possa tratteggiare. Solcata da spacciatori e criminalità (semi)organizzata, Copenhagen ospita un gangsters movie ipnotico. L’assenza di luci, la discesa per le strade, prende un significato politico solo dopo che risolve limiti di budget. Nel ciclo di una settimana seguiamo un pusher sommerso dai debiti. La città non ha che il carattere della malavita, ma dai vetri dei locali si affaccia il contrappunto di luci al neon. Come Garrone in Gomorra, Refn non comunica il destino dei protagonisti ai suoi interpreti. Gira in ordine cronologico e imbriglia un tessuto sotterraneo di un paese altrimenti lodato per il suo senso dell’ordine.
Per ritrovare lo stereotipo e i monumenti serve un film estero. Come “Copenhagen”, di Mark Raso. Una produzione canadese-americana che trova il giusto equilibrio tra venerazione turistica ed esplorazione urbana. Con una struttura a caccia al tesoro, “Copenhagen” rivela la capitale proponendone una mappa. Il suo protagonista, trentenne americano di origini danesi, ricerca i luoghi che appaiono nelle foto di gioventù del padre. Tra indizi nascosti in una lingua a lui sconosciuta e indecifrabili vie, ritrova la città scontata a cui chiunque potrebbe pensare. Non per questo viene meno il fascino di un delizioso giro in bici lungo il porto di Nyhavn.
Quando Mark Raso ci porta al cospetto della sirenetta, pensa bene di ambientare la scena in piena notte. I fari spenti impediscono l’effetto brochure. La statua in bronzo ci appare di sfuggita, illuminata dai flash della macchina a rullino della giovane (anzi, giovanissima) Effy. La storia d’amore tra i due nasce e muore qui. Il divario d’età impedisce uno sviluppo romantico. Seppure l’atmosfera del film trovi nell’ambientazione danese le forme delle migliori commedie romantiche.
Due estremi per dire Copenhagen. Offerti allo spettatore a seconda del suo gusto. Ma anche delle sue volontà. In cerca di un cinema di rottura, iniziatore di un regista oggi blasonato, “Pusher” è la risposta nord-europea allo Scorsese della New York anni ’70. Mentre Mark Raso è solo l’ennesimo prodotto di un occhio da villeggiante, capitato in una città europea come fosse una tra le tante.
Dietro “Copenhagen” troviamo però la bellezza della scoperta. Perché nel 2014 finge l’assenza di internet e arma i suoi protagonisti di telefoni ben più vecchi del tempo in cui si ambientano le vicende. Sogna un mondo in cui perdersi in un centro storico sia ancora possibile, guidati da vecchie foto di cinquanta anni prima. Una proposta hipster, naive, eppure irresistibile.