Quella questione del razzismo diffuso, che il buon presidente Obama aveva dichiarato pressoché risolta, si va trasformando, oltre che in emergenza nazionale, in nevrosi. È la prima spiegazione, a margine delle polemiche d’antan sulla “cancel culture” – il razzismo del disaccordo, ci viene da dire – nel vedere un saggio come “White Fragility: Why It’s So Hard for White People to Talk About Racism” (“Fragilità bianca – perché per i bianchi è così difficile parlare di razzismo”) salire al primo posto delle classifiche di vendita di Amazon negli States, sull’onda emotiva dell’assassinio di George Floyd.
Il libro, pubblicato nel 2018 dalla 63enne docente di educazione multiculturale Robin DiAngelo, aveva già conosciuto il successo al primo apparire, ma qui si viaggia verso i 2 milioni di copie smerciate, tra carta e digitale, ed è chiaro che il fenomeno va ben oltre l’editoria. Nel frattempo la DiAngelo è diventata l’attrazione principale di quel mondo di workshop aziendali e conferenze a pagamento nel quale tanto le corporations (Microsoft, Levi’s e Google, per esempio) quanto le persone con un imprinting “politicamente corretto” riversano i loro scrupoli sociali.
Per quindicimila dollari l’autrice offre una sessione di tre ore nel corso delle quali, per un’audience quasi interamente bianca, inscena un procedimento di colpevolizzazione collettiva che certamente incide nella psiche di quanti si siano sentiti chiamati in causa dalle ultime tragedie a sfondo razziale. Oggetto: la denuncia dei privilegi consapevoli e inconsapevoli, degli atteggiamenti suprematisti consci ed inconsci, della visione coloniale che investirebbe tutti i cittadini americani bianchi, contaminando il loro fattore genetico, inteso come trasmissione culturale, educazione, regola di convivenza e di organizzazione sociale, esplicita e non.
Il tutto inscenato mentre l’indurirsi della protesta e l’ascesa dei movimenti nel solco del Black Lives Matter, hanno già messo il tema al centro dell’attenzione pubblica, al punto di farne il tema portante, a fianco agli andamenti economici, delle campagne presidenziali in pieno corso. Insomma, la battaglia per lo scardinamento del razzismo sistemico nella società americana sta dispiegando armate e argomenti e la sensazione diffusa è d’essere alla vigilia di un procedimento collettivo epocale, i cui risultati sono tutt’altro che scontati.
E non a caso ciò che scrive e dice nelle sue conferenze la DiAngelo è dilagato dall’elitario alveo accademico, diventando materia da talk show, seminari e perfino discussioni nei salotti americani: «Non sono qui per confortarvi: parlerò di cose e ammetterò cose che i bianchi assai raramente hanno il coraggio di ammettere e nominare», annuncia questa imprevedibile incarnazione dell’angelo sterminatore.
Gli americani, sempre a corto di scetticismo, l’ascoltano con la concentrazione di un catechismo collettivo: «Io vi conosco. I progressisti bianchi sono la mia specialità. Perché io sono una progressista bianca. E vedo le cose in un modo razzista». La confessione è pronunciata. L’acre provocazione è innescata. Nessuno si salva: siamo razzisti in quanto bianchi.
Tutti chiamati in causa. Bisogna cominciare il procedimento di espiazione. E non ci illudiamo che sarà una questione sbrigativa. Ci vorrà tempo. Quando verrà settembre, saremo ancora razzisti. Con la differenza che sapremo di esserlo. Parole pesanti, se chi ascolta, t’accorda un mandato fiduciario. Le platee sbandano, i lettori s’interrogano. Robin DiAngelo diventa una scrittrice di successo e l’ospite contesa. Ma al di là delle cronache, il tema assume per la prima volta una centralità inedita, in questo malfermo passaggio della psiche nazionale americana: siamo davvero così? Siamo prodotto, ma anche origine, di una stravolgente deformazione collettiva?
Il bianco americano (e non) ha sempre schiacciato, violentato, sottomesso, peccaminosamente perseguitato il non-bianco. Questo è stabilito. Per secoli è stato approvato e sostenuto. E ora è denunciato. I veri ricchi sono i bianchi, quelli con l’accesso al potere e al successo sono loro, la “differenza” diventa dato certo già quando si nomina la “storia afroamericana”, procedendo a un distinguo apparentemente innecessario.
«Il senso di superiorità letteralmente cola dai pori della mia pelle» dice la DiAngelo, stuzzicando quel subconscio che si ha paura d’esplorare: «La supremazia bianca include gli estremisti e i nazi, ma sociologicamente calza anche alla società normale in cui viviamo, nella quale i bianchi costituiscono la condizione ideale e gli altri ne sono versioni a togliere».
I neri, scelti come schiavi dai fondatori della nazione, combustibile per l’avviamento del progetto, non hanno mai smesso d’essere “i neri” – non c’è affrancamento, risarcimento, pacificazione che tenga. Nella cultura dei bianchi, i neri continuano a essere ciò che sono stati costretti a diventare, in una visione prima nevrotizzata e poi placata e cloroformizzata dalle convenzioni.
«Nella cultura bianca c’è qualcosa di profondamente anti-nero» sostiene la DiAngelo, girando il coltello nella ferita: «Siamo tutti razzisti che nuotano in una cultura razzista». Il meccanismo lo si deve esporre, continua lei, se si vuole sperare nella purificazione. È questa la fragilità che sbatte in prima pagina sul suo bestseller: la propensione dei bianchi a respingere la suggestione del razzismo, sia con negazioni risibili (“io non distinguo tra i colori”), che con un eccessi di solidarietà.
Ipocrisia, in sostanza: la fragilità bianca è la copertura, la protezione di un problema troppo grande da essere risolto. Allora si preserva il totem: lo status quo, le gerarchie perpetuate dal “tranquillo” razzismo sistemico del tutto incarnato nel tessuto sociale della nazione, oltre che nel suo progetto originale.
È evidente che ci sia qualcosa di narcisista, in questo iperattivismo della denuncia, un “che volete farci? Da qualsiasi parte vi girate, sarete sempre al centro del peccato”. Ed è anche delicato mettere in discussione il metodo-DiAngelo, provando a scansare quel fuoco amico che adesso si chiama “cultura della cancellazione”. Perché qui abbiamo un’intellettuale bianca che dice a un pubblico bianco: «Noi evitiamo, ignoriamo o minimizziamo l’impatto del razzismo sulla nostra vita».
Oppure: «Non possiamo aspettarci che il razzismo finisca nel tempo che abbiamo da vivere, ma almeno provocherà meno danni ai non-bianchi». Insomma la conversazione è indispensabile, l’esame di coscienza è sacrosanto, i progressi sono auspicabili. Ma c’è qualcosa di dissonante in questa campagna per l’autodenuncia, qualcosa che stuzzica l’isteria e che somiglia a un fondamentalismo strumentale. DiAngelo chiede a i bianchi d’essere meno bianchi, perché altrimenti perpetreranno i peccati dei padri: «Gli americani devono decidere se vogliono essere una nazione multiculturale o no!, sostiene lei.
La provocazione rimbomba all’origine della stessa idea di America, così spudoratamente bianco-centrica quale in effetti è stata. È una negazione del tutto – altro che Destino Manifesto e Unione Perfetta…! – è l’invocazione d’una rivoluzione e non di una revisione, clamorosa almeno quanto sono scandalose le teorie dei suprematisti. Ma sorge anche il sospetto che non abbia a che fare con la realtà, bensì col senso di colpa.
Ovvero che colpisca un bersaglio esposto: l’approssimazione della natura umana e la sua relativa estraneità ai concetti d’empatia e condivisione. DiAngelo lascia intravedere la prospettiva di un ritorno all’uomo buono, americano, purificato – dunque, peraltro, di nuovo in odore di superiorità – indifferente ai colori della pelle e ai relativi valori, che non esiste nella realtà di questa nazione, né di nessun’altra.
Il processo di “vigilanza costante” sul proprio razzismo che l’autrice promulga come via alla redenzione, contiene al tempo stesso un fattore di verità e uno spudorato quoziente di autopromozione. È la stessa DiAngelo, e con lei il crescente plotone di analisti del “bianchismo”, ad aver trasformato questi rituali di presa di coscienza collettiva in un business in impressionante espansione. L’affare si chiama “ripulirsi lo spirito”.
Un procedimento venduto su Amazon ed espanso negli incontri sovvenzionati da aziende a caccia di indulgenze (razziali). Chiamiamolo il business della diversità: un training prenotabile che negli States già ora vale un mercato da 8 miliardi di dollari l’anno. Ben spesi, certamente, se tutto ciò non avesse una parvenza così smaccatamente sovrastrutturale: il consumismo della riparazione. Una mistica tragicamente in conflitto con le effettive traiettorie della natura umana. Nell’intimo della quale solo una forza religiosa potrebbe davvero sperare di sovvertire le dinamiche gerarchiche connaturate al progetto sociale, al punto di esserne sia l’effetto che la causa. E questo chiamatelo, se volete, pessimismo razziale.