La prima reazione è di sollievo. Sulla salita della Navicella, che prima era una specie di autoporto, non staziona più neanche un pullman di turisti. Non una sola comitiva volata qui da Wuhan o dal Texas per farsi il selfie con la prolunga davanti al Colosseo. L’aria è più pulita, e si trova perfino parcheggio. Niente più file per entrare nell’arena dei gladiatori, sulla passeggiata dei fori imperiali incontri soltanto uno sparuto strimpellatore con chitarra elettrica vintage, un paio di statue viventi e qualche venditore di ombrellini parasole.
Qua e là capita di incocciare in una famiglia di francesi, o in una coppia di spagnoli. Tutto il resto è deserto. Stessa cosa ai Musei Vaticani, alla Cappella Sistina, ai Capitolini. Chi torna a Roma dopo mesi di lockdown stenta a riconoscere la città. È il paradiso sognato da Tomaso Montanari, implacabile censore del consumo culturale di massa, delle mostre blockbuster e dell’arte asservita al mercato: «Svincolare i musei dalla bigliettazione – diceva ancora nel maggio scorso – li sgancerebbe da una logica aziendalista e permetterebbe di misurarli sull’efficacia con la quale trasmettono la conoscenza».
Eccolo accontentato. Bando alla bigliettazione, grazie al Covid nei musei romani non entra più nessuno, soltanto gli storici dell’arte che non pagano biglietto, ben distanziati e muniti dei necessari presidi sanitari. E la conoscenza si trasmette alla grande, come un benefico aerosol, senza che i privati allunghino le loro manacce infette sul patrimonio artistico che tutto il mondo ci invidia.
E pazienza se ristoranti e bar hanno le luci spente e il cartello di chiusura temporanea appeso alla porta l’11 marzo, se il Raphaël e altri famosi Hotel sono sprangati e col personale in cassa integrazione. Pazienza se i tavolini nei dehors del centro restano vuoti, perché anche i ministeriali sono in smart working a Fregene e la pausa pranzo la fanno in spiaggia, e i rari gitanti squattrinati se la cavano col “cammina magnanno”, i frittini nel cono da passeggio.
Pazienza se metà dei negozi di abbigliamento ha tirato giù la serranda e l’altra metà svende al 30 o al 50% e restano disoccupati perfino i mutandari con le sciarpe della Roma e del Barça, i noleggiatori di monopattini elettrici e i tassinari coi loro inutili divisori di cartone e pellicola Domopak, che farebbero carte false pur di caricare qualche asintomatico fuggito dallo Spallanzani. È la decrescita, bellezza. La fine della globalizzazione e del neoliberismo selvaggio. Tra poco torneremo beatamente alla pastorizia e tra le rovine dei Fori pascoleranno le capre come nelle cartoline del Grand Tour. Niente sarà più come prima.
Ma c’è qualcosa che non cambia, che resiste gagliardamente alla falce della pandemia. La cosa di gran lunga più eterna della città eterna: i cassonetti. Misteriosamente pieni in una metropoli vuota, anzi rigurgitanti, a diffondere nell’aria la raffinata essenza “Eau de Rocca Cencia”. Il cassonetto, ormai scomparso da tutte le capitali d’Europa, rappresenta uno degli orgogli del made in Italy, un emblema inconfondibile dell’Urbe, almeno quanto la lupa. A Milano la spazzatura si butta discretamente nei bidoni condominiali, al riparo dagli sguardi della gente. I romani continuano a farlo davanti a tutti. È una specie di pornografia della monnezza. YouGarbage.
Ha ragione la sindaca a decantare i successi del «pubblico che funziona bene». Ma non c’è soltanto Atac, pure Ama merita una menzione speciale, tanto da aver attirato l’attenzione della procura e della Corte dei Conti. «Rifiuti zero come a San Francisco», aveva promesso Virginia in campagna elettorale. «Le discariche e gli inceneritori sono il passato, proprio come i vecchi partiti, mentre il riciclo e il riuso sono il futuro e rappresentano una risorsa, proprio come il M5s per questo Paese». E infatti.
Qui siamo oltre lo “stato catalizzatore” caro alla professoressa Mazzucato. Nella Roma di Raggi trionfa lo stato tritovagliatore, lo stato smaltitore. Il Cdp, Cassonetto Depositi e Prestiti. Il totem del nuovo interventismo pubblico, pronto a metabolizzare, macinare ed espellere ogni “grumo di interessi privati” in nome del bene comune, anzi del miasma comune.
Due secoli e mezzo prima di Beppe Grillo, nel novembre 1786, Wolfgang Goethe così scriveva a proposito dei romani: «Null’altro saprei dire di questo popolo se non che è gente allo stato di natura, gente che, in mezzo agli splendori e alle solennità della religione e dell’arte, non si scosta d’un capello da quel che sarebbe se vivesse nelle grotte e nei boschi». «Gente de fogna», insomma, già allora, come recita il sonetto del Blog Cinquestelle. Con un’attenuante però: che Pio VI l’avevano eletto 44 cardinali, manipolati dallo Spirito Santo. I romani erano innocenti.