Per quale ragione lunedì, a Mondragone, Matteo Salvini è stato duramente contestato dai giovani antifascisti dei centri sociali, mentre sabato sera Giuseppe Conte, impegnatissimo nei sei giorni precedenti a tenere 180 naufraghi su una nave rifiutandosi di farla attraccare, esattamente come faceva ai tempi in cui Salvini era il suo ministro dell’Interno, è stato accolto come una star dai giovani antifascisti del cinema America? Per quale ragione la contestazione di Salvini è stata salutata sui social network da canti rivoluzionari e sventolio di bandiere rosse, e la sfilata di Conte e signora sul red carpet di Trastevere pure?
Onore ai pochi giornalisti e ai pochissimi esponenti del Partito democratico, da Matteo Orfini a Tommaso Nannicini, che hanno avuto il buon gusto di segnalare la contraddizione, accompagnando gli elogi alla passerella contiana con un salutare promemoria circa la situazione dei naufraghi raccolti dalla Ocean Viking, che forse solo per questo, alle ore 16.30 di ieri, si è vista infine concedere il permesso di attraccare.
Tanto basta naturalmente per indignare Salvini, autore di un tweet che meriterebbe di finire nei manuali scolastici, se mai verrà un tempo felice in cui potremo studiare tutto questo chiedendoci con sincero stupore come sia stato possibile: «Minacciano il suicidio… e il governo apre subito le porte ai 180 clandestini dalla Ong norvegese».
Eppure si può scommettere che tanto basterà per mettere a posto la coscienza dei nuovi tartufi del radicalismo democratico-populista, i quali spiegheranno a se stessi e a noi, senza un tremito nella voce, come il salvinismo silenzioso del governo Conte sia l’unico antidoto all’ascesa del leader leghista, e che per questo l’avvocato del popolo fa benissimo a tenersi i decreti sicurezza e tutti i provvedimenti di Salvini. Per evitare che a prenderli sia Salvini, ovviamente.
Accettare questo ragionamento significa però accettare la logica che sottende, e cioè che la politica italiana e l’intero processo elettorale non abbiano più nulla di diverso da un televoto del Grande fratello, e che insomma si tratti di scegliere semplicemente il proprio personaggio preferito tra un certo numero di oziosi ospiti di un interno in cui non succede mai niente, salvo occasionali litigi ed eventuali rappacificazioni, piccoli tradimenti, scatti di gelosia e malcelate rivalità.
Troppe facili ironie dovremo rimangiarci su Rocco Casalino e sul suo passato da concorrente di reality show. Esperienza evidentemente messa a frutto nel migliore dei modi, se di questo immenso Grande fratello in cui oggi siamo immersi lui è diventato il regista, o perlomeno il direttore delle luci, mentre noi – tutti noi, nessuno si senta escluso: il commentatore annoiato e l’oppositore goliardico, la contestatrice del centro sociale e l’ammiratrice del centro estetico – non siamo che personaggi secondari, intrappolati in un ruolo bidimensionale e ripetitivo, costretti a recitare ogni giorno la più fasulla e grottesca delle parti in copione. Quella di noi stessi.
Forse dovremmo rassegnarci. Per Conte, per i suoi sostenitori e persino per i suoi critici – per tutti, insomma, salvo che per gli sfortunati naufraghi raccolti in prossimità delle nostre coste – l’Italia è diventata come l’America. Un grande cinema all’aperto.
Anzi, un Grande fratello.