Potrebbe scavarsi la fossa da solo, e perché corra il rischio è un mistero, o forse è solo un calcolo di un impolitico (Thomas Mann che usò questo aggettivo per se stesso lo perdoni). Ma malgrado i chiari di luna Giuseppe Conte mette il cappello sulle Regionali di settembre, che non sarà il gucciniano “mese del ripensamento sugli anni e sull’età” ma piuttosto il mese degli esami di riparazione dopo la stagnazione post-lockdown (che era già di suo una super-stagnazione).
Spinto dagli apprendisti stregoni del Nazareno che come nella sinfonia di Dukas non sembrano più controllare le dinamiche delle loro stesse azioni, l’avvocato sale inopinatamente sul podio di un’orchestra in cui violini e legni vanno ognuno per conto proprio nel tentativo di mettere d’accordo Partito democratico e Cinquestelle in Liguria, Marche e Puglia, dove il Pd da solo non vincerebbe (e forse nemmeno con i seguaci di Vito Crimi, destinato all’ennesima botta elettorale).
Conte si è assunto il ruolo del mallevadore, cioè colui che – dice il vocabolario Treccani – «garantisce l’adempimento di una obbligazione assunta da un’altra persona», in pratica il garante della leggendaria “alleanza strategica”, moderna imitazione della Duplice Alleanza fra lo zar e i notabili della III Repubblica francese, un’alchimia che scoppietta negli alambicchi franceschiniani non si sa con quali benefici per lo stesso Dario, oltre che, incidentalmente, per l’Italia.
Il presidente del Consiglio rischia così di fare la fine di Massimo D’Alema che giusto vent’anni or sono era capo del governo e cercava la famosa legittimazione popolare che non aveva avuto, avendo fregato la sedia a Romano Prodi con bell’astuzia, e decise di avere alle Regionali il bagno di consensi che ne avrebbe assicurato imperituro potere: ma invece ne ricavò un “bagno” politico, nel senso che, perdendo un po’ di regioni, dovette lasciare Palazzo Chigi per non tornarvi mai più.
Ora l’avvocato del Popolo, che pure non ha la grinta dell’avvocato di Arras Maximilian Robespierre, si butta dentro il cerchio di fuoco retto dalle mani di Michele Emiliano da Bari e Maurizio Mangialardi da Senigallia, i due candidati che faranno vincere o perdere l’AS (Alleanza strategica), sempre che si riesca a fare sia in Puglia che nelle Marche. Tradotto, diventa più o meno un voto sul governo.
Ed è anche un segno di questi tempi tristi che i nipotini di Berlinguer e De Mita debbano pregare in ginocchio uno che fa politica da due anni di recarsi a sua volta in ginocchio da Vito Crimi a chiedere se per favore li fanno vincere almeno in 2 regioni, sennò casca tutto o quasi.
In ogni caso, la politicizzazione “nazionale” delle Regionali è ad alto rischio. L’andreottiano Conte qui sì vede quanto sia lontano dal suo modello: il divo Giulio non avrebbe mai giocato un suo governo a testa o croce alle Regionali.
Così poi si fa un regalo a poi un avvelenato Salvini, sempre a caccia di rivincite come un Tecoppa che si lamenta di non riuscire a colpire l’avversario perché quello si muove: «Vinciamo 5 a 2, anche se io lavoro per un 7 a 0», ha sbruffoneggiato.
Ma lui si può capire, è anch’egli in cerca di un enorme cerotto politico che chiuda la ferita autoinfertasi in un penoso harakiri su una spiaggia romagnola. Fallito l’assalto all’Emilia, ora ci riprova: sempre la stessa zuppa, si dirà, ma è l’unica che sa cucinare.
Invece Conte (e l’amico-nemico Zingaretti, che in questi giorni pare il cane di De Gregori che non sa dove andare eppure ci va) non vede che rischia di andare a infilare la testa sotto la ghigliottina del voto. E Marche e Puglia potrebbero essere il suo gigantesco patibolo.