Fascio, falce e bordelloBreve storia di un paese populista

Tutti hanno ceduto alla malattia senile della democrazia: Mussolini, Giannini, Guareschi, Berlusconi, il Pci dopo Aldo Moro, alcuni Pm dopo Tangentopoli, Bossi e Salvini. E con la contaminazione fatale in atto tra Partito Democratico e Movimento Cinque Stelle si allontana la prospettiva di un paese laico e liberaldemocratico, fondato su merito e competenza a ogni livello

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Sulla copertina del  libro pubblicato nel 2017 da Marco Revelli per Einaudi, Populismo 2.0, si legge quanto segue: «Il populismo si manifesta quando il popolo non si sente rappresentato. È malattia infantile della democrazia quando i tempi della politica non sono maturi. È malattia senile della democrazia quando i tempi della politica sembrano essere finiti. Come ora, qui, non solo in Italia».

Un testo di grande utilità per comprendere la fase doppiamente drammatica che il mondo sta attraversando. Non sempre concordo con le analisi di Revelli, che pure ha il tratto e la precisione doverosi per un eminente studioso della scienza della politica, ma che rivelano, talvolta, tracce ideologiche difficili da non vedere.

Inoltre, la piena manifestazione del fenomeno nei recenti tre anni consente oggi un’analisi più attuale e disincantata in merito a quanto l’Italia sia stata sempre a rischio di populismo, tranne brevi stagioni di stabilità che hanno accompagnato, e spesso determinato, la crescita sociale ed economica del Paese.

Sul tappeto verde dell’Italia del Novecento il primo a giocare la carta populista fu Benito Mussolini. Commentando la monumentale opera dello storico Renzo De Felice pubblicata da Einaudi, Indro Montanelli ebbe scrivere su Le nuove stanze:  «Sul Ventennio fascista nessuno potrà più scrivere una riga senza consultare De Felice, nel quale c’è tutto. Tutto meno una cosa, purtroppo la più importante: l’uomo Mussolini, senza il quale del fascismo non si capisce nulla, perché il fascismo fu tutto e soltanto lui».

A tale mancanza ha posto rimedio nel 2018 la meritoria opera di Antonio Scurati M, Il figlio del secolo, edito da Bompiani e Premio Strega l’anno successivo, che con la  penna certamente più agile di cui il narratore dispone rispetto allo storico, ha evocato, con estrema attenzione alle fonti, i recessi più nascosti dell’animo dell’Uomo della Provvidenza, rivelandone il pathos negli anni dal 1919 al 1925.

A lungo ostracizzata dalla cultura dominante e recentemente ripresa, spesso in modo improprio, dai pochi intellettuali della destra nostrana, nell’opera di De Felice sono centrali i due volumi intitolati Mussolini il fascista 1.La conquista del potere e Mussolini il fascista 2.L’organizzazione dello Stato fascista, che descrivono il periodo dal 1921 al 1929, durante il quale il regime si consolidò grazie all’enorme consenso popolare che, pur dubbio e condizionato nelle urne, era comunque palese nelle piazze e coltivato anche nelle tante famiglie italiane, almeno sino a poco prima del baratro delle Leggi razziali che aprirono gli occhi a molti cittadini, non soltanto di origini ebraiche, sulla tragedia incombente.

Mussolini si trova a raccogliere le macerie dello Stato liberale retto da uno Statuto che aveva già fatto il proprio tempo e da una monarchia debole nel corpo e nello spirito, pronta per essere spazzata via dal furore rivoluzionario, come già quella tedesca, l’austriaca, la russa e, successivamente, la spagnola.

La popolazione italiana è piegata e piagata dalla “vittoria mutilata” che ha riportato il Paese nelle condizioni economiche e sociali pre-unitarie a tutti note  e cui si sommano le vittime del conflitto, in larga parte contadini del sud e operai del nord; si è ancora in piena epidemia “spagnola” che solo in Italia fece quattrocentomila morti, a fronte dei cinquanta milioni in tutto il pianeta; i disordini sono all’ordine del giorno e da sinistra si coltiva il sogno di replicare la Rivoluzione d’Ottobre.

Anche a chi fosse stato meno dotato di quel fiuto animalesco per la politica che Mussolini possedeva, quello descritto sarebbe apparso uno scenario ideale per far accettare qualsiasi uomo che si proponesse come salvatore della Patria, portatore dell’ordine, vendicatore dell’onore italiano calpestato dalle demoplutocrazie europee che a Versailles avevano lasciato l’Italia in braghe di tela, a motivo, occorre ricordare, della posizione imbelle e rinunciataria assunta dal Presidente del Consiglio in carica, Vittorio Emanuele Orlando.

Mussolini trova davanti a sé un popolo immiserito e rancoroso, un campo immenso in cui seminare l’odio per la democrazia, innestare la strategia del nemico incarnato dagli intellettuali liberali, comunisti, socialisti, cattolici e potare la società italiana da ogni residuo consenso verso lo stato liberale e la rappresentanza parlamentare, ritenuta casta inutile, costosa e dannosa. Pare che se ne torni a parlare. Vedremo a settembre.

Su tutto ciò crebbe l’albero frondoso del consenso, fondato per i più dalle politiche sociali, familiari, pensionistiche ed assistenziali, edilizie ed architettoniche. Gli italiani furono accecati da un chimera molto potente e mediaticamente efficace: la propaganda, nuova declinazione populista dell’azione politica che tanto avrebbe ispirato Adolf Hitler, dichiarato ed entusiasta allievo ed emulo del Duce dell’Italia fascista.

Il primo populismo italiano era nato e cresceva in ogni strato sociale, ben disposto a rinunciare alle libertà costituzionali in cambio di lavoro, pensioni, provvidenze strutturali per categorie disagiate e famiglie numerose, sicurezza pubblica  e personale e quel prestigio internazionale che anche gli Stati Uniti del tempo non mancarono di riconoscere al regime.

L’antifascismo era nozione lontana, incerta e inaffidabile, nell’esilio della coscienza nazionale. Poiché conosciamo tutti l’esito di quella drammatica pagina di storia, passo ad analizzare il secondo populismo di cui il Paese è stato vittima consenziente.

Diluitisi i fervori della Resistenza, del CLN, della stagione Costituente e della nascita della Repubblica, seppur salutata in modo tutt’affatto che  plebiscitario, ridimensionati i disegni del Fronte Popolare con la vittoria della Democrazia Cristiana il 18 aprile del 1948, l’Italia conoscerà un periodo di prosperità dovuto ai fondi del Piano Marshall, animato dalla fiducia nel futuro e dalla graduale e crescente catarsi nello scenario internazionale.

Il populismo rimase, pur se allo stato carsico, manifestandosi di volta in volta nell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, nelle pagine del Candido di Giovanni Guareschi  e nella cosiddetta destra sociale di cui è ultimogenita Giorgia Meloni.

Con fasi alterne, tale periodo durerà sino alla fine degli anni ‘60 ed avrà come epilogo la Strage di Piazza Fontana nel 1969, a sua volta inizio della strategia della tensione sino a raggiungere il culmine negli anni di piombo.

L’esecuzione di Aldo Moro segnò la fine di ogni possibile compromesso storico con un Partito comunista, già orfano dell’Unione Sovietica dopo lo strappo da Mosca di Enrico Berlinguer e nonostante i successivi sforzi in senso contrario posti in essere da Alessandro Natta, Armando Cossutta e Gian Carlo Pajetta.

Stretta tra il vuoto ideologico, la fine del supporto economico e l’incalzare del vero nemico di sempre sin dal Congresso di Livorno del 1921: quel Partito Socialista Italiano divenuto frattanto partito di governo e leader dell’Internazionale Socialista, il Partito Comunista imboccò pericolosamente la strada del populismo, utilizzando spesso le formazioni minori della sinistra extraparlamentare che fu spesso fucina di cattivi maestri e compagni che sbagliavano e investendo in una generazione, indubbiamente brillante che, cresciuta nei cortei, era diventata parte non secondaria nei campi della cultura e dell’informazione, dell’università e delle professioni  e, fatto ancor più rilevante, della Magistratura.

Il nemico dei nuovi populisti aveva ora due volti da trasformare in bersagli: la Democrazia Cristiana del dopo Moro e il PSI di Bettino Craxi. La strage di Capaci con le connessioni potenti tra politica e mafia e il sopraggiungere dell’indagine Mani Pulite, che altrove sarebbe stato circoscritta nell’ambito giudiziario, furono i due pali della forca cui impiccare un’intera classe dirigente, sia politica che industriale, rodando una gioiosa macchina da guerra che avrebbe consentito agli eredi di Togliatti di conquistare finalmente il potere. Se ci fossero riusciti, l’Italia avrebbe salutato la Nato e, probabilmente, non avrebbe avuto alcun ruolo nella creazione dell’Europa Monetaria, con il conseguente crac della lira già deprezzata nel mondo intero e il fallimento del Paese.

La vittoria schiacciante e imprevedibile di Silvio Berlusconi nel 1994 lo impedì, inaugurando però la stagione di un populismo coeso contro il nuovo nemico e forte di importanti alleanze con parti non irrilevante dei Poteri dello Stato.

Non uno, dunque, ma ben due inediti populismi contrapposti.

Quello nazionalpopolare dell’Uomo di Arcore, fondato sulla potenza della comunicazione televisiva ed editoriale, gigantesca macchina propagandistica, ma non esente da ombre consistenti che consentirono a parte della Magistratura militante di contrastarne per decenni l’azione di governo attraverso le indagini del Pool di Milano e di altre Procure, che si incrociarono, attraverso l’utilizzo del Teorema Buscetta, in una gigantesca trappola per topi che distrusse la Democrazia Cristiana e Craxi prima e Berlusconi dopo.

Le rivelazioni pubblicate dal Riformista nello scorso giugno circa le parole pronunciate del magistrato Amedeo Franco, scomparso nel 2019, contenute in una registrazione audio a sua insaputa, in merito all’inconsueta rapidità del verdetto di condanna della Corte di Cassazione di Silvio Berlusconi per la vicenda Mediaset che ne causò nel 2013 l’espulsione dal Senato in forza della Legge Severino, hanno creato un terremoto politico e forse faranno riscrivere alcune pagine della storia nazionale.

Populismo contrapposto al precedente fu l’antiberlusconismo senza se e senza ma che ha alimentato il sentimento dell’antipolitica, ormai diffuso nel Paese ed a cui oggi paghiamo un prezzo altissimo poiché ha creato le basi e le condizioni per il sorgere di Movimenti ambigui e autodefinitisi post ideologici e per la rinascita della Lega, il cui destino sembrava ormai ineluttabilmente segnato dal declino di Umberto Bossi e dalle vicende finanziarie oscure che ancora oggi lasciano molto perplessi, ma che non hanno ostacolato l’ascesa di Matteo Salvini e inciso sulla trasformazione di ciò che era nato come Liga Veneta prima e Lega nord successivamente, in un partito nazionale al governo della maggior parte delle Regioni.

Con la contaminazione fatale in atto tra Partito Democratico e Movimento Cinque Stelle –  quest’ultimo oggi qui domani altrove – si allontana la prospettiva di un paese laico e liberaldemocratico, fondato su merito e competenza ad ogni livello, sulla cultura come ascensore sociale, in grado di recuperare quei valori repubblicani durati una breve stagione e  che sembrano perduti per sempre.

Quel partito che non c’è come lo ha definito Enrico Cisnetto sul periodico online Terza Repubblica dell’11 luglio: «Una forza che parta dal presupposto che prima vengono le idee e poi le leadership, non viceversa, e che quindi non sia il “partito di tizio” o il “partito di caio”, cui lega indissolubilmente le sue fortune e i suoi rovesci. Una forza che si formi nella società ma che abbia l’ambizione di guidarla, non di esserne la fotocopia. Una forza che si collochi al centro del sistema politico, non perché sia banalmente centrista – termine peraltro ormai consunto oltre che desueto – ma perché vuole attrarre le forze più equilibrate a scapito delle ali di destra e di sinistra, per loro natura più ideologizzate e radicali.

Lo spazio politico c’è, quello elettorale è addirittura una prateria specie se si ha l’ambizione di recuperare al voto coloro che negli ultimi si sono astenuti per scelta e non per disinteresse o qualunquismo. Le condizioni, almeno quelle emotive, ci sono, a giudicare dall’interesse che questo discorso suscita. Si tratta di mettere in moto il processo».

 

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