Segnatevi la data in agenda, non prendete altri impegni e tenetevi pronti. È ufficiale: dal 27 luglio il Parlamento tornerà a discutere di legge elettorale, come ha fatto praticamente ogni due anni dal 1994 a oggi, cioè dal primissimo anno della nuova era maggioritaria aperta dai referendum del 1993.
Giovedì la conferenza dei capigruppo ha stabilito infatti che alla fine di luglio la Camera torni a discutere dell’unica emergenza nazionale di cui non ha mai smesso di occuparsi e su cui non ha mai smesso di legiferare, in esecuzione più o meno fedele del dettato referendario (uno dei tanti referendum che dal 1993 in poi si sono celebrati) o invece per prevenirlo (uno dei tantissimi per i quali si sono raccolte le firme).
La prima ragione per cui la questione è tornata di attualità è il fatto che a settembre si terrà il referendum sul taglio dei parlamentari. La seconda è che la barca del governo Conte fa acqua da tutte le parti, e urge approntare una scialuppa. La terza è che, in fatto di soluzioni di emergenza e scialuppe consimili, la fantasia dei nostri parlamentari è molto scarsa.
Non per caso, dal giorno in cui in Italia si è consumata la vittoria referendaria del fronte maggioritario, in nome della governabilità e della semplificazione del sistema, contro lo strapotere dei piccoli partiti e per il diritto degli elettori a scegliersi direttamente il governo (un governo di legislatura, va da sé), non c’è stato governo «scelto dagli elettori» che non sia entrato in crisi dopo un paio d’anni (unica eccezione il secondo governo Berlusconi, varato nel 2001, che comunque per arrivare a fine legislatura dovette cedere il passo, nel 2005, al Berlusconi III).
E non c’è stata crisi che non sia stata seguita, di fronte allo spettro di elezioni anticipate, da accorati appelli al senso di responsabilità e al superiore interesse del paese, che richiedeva, anzi imponeva, prima del ritorno alle urne, che si desse al suddetto paese una legge elettorale degna di questo nome (più un certo numero di altre riforme urgenti di varia estrazione), accompagnata se possibile da coerenti interventi costituzionali (perché la legge elettorale da sola, senza coerente ridisegno istituzionale, si sa, è come i cantucci senza il vin santo: ti si ferma in gola) e naturalmente – c’è bisogno di dirlo? – da un nuovo governo (unica eccezione, la crisi del secondo governo Prodi, gennaio 2008, dove i fautori della nuova legge elettorale, ovviamente maggioritaria, Walter Veltroni e Silvio Berlusconi, si accordarono per farla direttamente dopo il voto, senza tuttavia approdare a nulla più di un paio d’incontri interlocutori, anche perché nel frattempo Berlusconi si era preso una maggioranza schiacciante in entrambe le Camere).
E così oggi gli stessi retroscenisti che hanno accolto la decisione di tornare a una vera legge elettorale proporzionale, con sbarramento al 5 per cento, come il ritorno alla deprecata Prima Repubblica, ai governi fatti e disfatti in Parlamento e allo strapotere dei piccoli partiti (dove avranno vissuto negli ultimi trent’anni, a Topolinia?), ci spiegano che a far saltare l’accordo potrebbe essere Matteo Renzi, timoroso altrimenti di non riuscire a superare lo sbarramento con Italia Viva, complice Giuseppe Conte, a sua volta preoccupato che un domani, senza i collegi uninominali e le relative trattative di coalizione, il suo eventuale nuovo partito debba sudarsi gli eletti uno per uno.
Quali che siano le vere intenzioni di entrambi, è comunque un grande passo avanti l’avere finalmente messo a verbale quello che la storia degli ultimi trent’anni aveva del resto ampiamente dimostrato, e cioè che il regno dell’ingovernabilità, delle trattative sottobanco e dello strapotere di micropartiti pieni di eletti e privi di elettori è proprio il maggioritario di coalizione che abbiamo sperimentato in vario modo fino a oggi.
Ci sarebbe poi un ultimo dettaglio. La ragione per cui il Partito democratico è tornato alla carica sulla proporzionale è che a settembre, come si accennava all’inizio, si voterà per il referendum sul taglio dei parlamentari, una delle tante orrende riforme gialloverdi che i democratici hanno accettato di mandar giù, in cambio di una legge elettorale capace di scongiurare almeno l’effetto «pieni poteri» che altrimenti ne conseguirebbe (taglio dei parlamentari + legge non strettamente proporzionale = chi vince si prende tutto il cucuzzaro).
Dopo aver fatto un governo in nome dell’emergenza democratica rappresentata dall’autoritarismo salviniano, offrire al medesimo Matteo Salvini la possibilità di fare cappotto con un solo voto, al punto da potersi poi eleggere il capo dello Stato e cambiare la Costituzione a piacimento, praticamente senza doverne discutere con nessuno, obiettivamente, appare un po’ troppo anche per campioni di autolesionismo quali gli attuali vertici del Pd. Di qui l’improvvisa resipiscenza.
Resterebbe comunque il problemino che il taglio dei parlamentari è una modifica costituzionale, mentre la legge elettorale è legge ordinaria, e dunque per stare tranquilli bisognerebbe perlomeno pensare a qualche correttivo e garanzia in più, ma sono tempi duri, e bisogna accontentarsi. Augurandoci che non sia già troppo tardi.