Non è chiaro se il colpo decisivo alla credibilità del governo sia stato l’ennesimo rinvio sul Mes o invece l’ennesimo rinvio sui decreti sicurezza.
O forse l’ennesimo rinvio sul decreto semplificazione, con il conseguente rinvio di tutte le norme che avrebbero dovuto permetterci – non ridete, perché è una tragedia – di accelerare, dalla riforma dell’abuso d’ufficio alla riforma del codice degli appalti.
O magari l’inatteso riflusso No-Tav del Movimento 5 stelle, sulla sola questione che sembrava, almeno quella, chiusa. Oppure il muro di gomma sul caso Regeni e la vendita di navi militari all’Egitto (l’unica scelta che non sia stata rinviata).
O forse l’esito impalpabile della lunghissima e inutilissima cerimonia degli Stati generali, dieci giorni di salamelecchi da cui avrebbe dovuto germogliare la nuova grande strategia del governo per la ripresa e da cui, ovviamente, non è germogliato un bel niente.
O magari, prima ancora, la solenne istituzione della commissione Colao, che ha lavorato due mesi per fornire alla suddetta strategia quello che Palazzo Chigi ha definito «un utile contributo».
Difficile stabilire quale sia stato, tra tutti, l’elemento decisivo. Sta di fatto che a leggere i giornali di ieri si direbbe che il governo Conte, e l’alleanza Pd-M5s su cui si regge, non stiano funzionando così bene.
Come sempre nel momento in cui una strategia politica lungamente perseguita entra in crisi, le opzioni di fondo si riducono a due: insistere o desistere.
Tra i fautori della prima opzione, non sorprendentemente, militano tanti di quegli intellettuali che in questi anni hanno sostenuto la natura progressista e democratica del Movimento 5 stelle.
Capaci di tenere il punto persino di fronte ai decreti sicurezza, alla chiusura dei porti e a tutti i provvedimenti più reazionari varati dal primo governo Conte, con l’argomento, fatto proprio dall’attuale gruppo dirigente del Pd, che era tutta colpa di Matteo Renzi.
In altre parole, se l’allora segretario del Partito democratico non si fosse opposto a un accordo di governo con i grillini (che peraltro non lo volevano affatto, ma tralasciamo i dettagli), lasciandoli in balia di quel poco di buono di Matteo Salvini, il Movimento 5 stelle avrebbe dato vita con i democratici a un fior di governo progressista, socialista, liberale e umanitario, sin dal 2018.
Resterebbe da spiegare come mai, ora che il governo Pd-M5s c’è, i cinquestelle continuino a non volerne sapere di cancellare i decreti Salvini, e anzi, per la precisione, continuino a non volerne sapere di cancellare proprio le multe per chi salva vite umane in mare: senza dubbio il punto più basso toccato dal governo precedente.
Eppure anche questo, per qualche misteriosa ragione, non deve risultare così intollerabile agli autonominati custodi della purezza identitaria della sinistra (o comunque molto meno del tentativo di abolire il Cnel o di riformare ruolo e composizione del Senato).
E così ecco Marco Revelli, teorico da sempre della natura non abbastanza di sinistra della sinistra che c’è (il suo saggio “Le due destre” è del 1996, l’anno della prima vittoria elettorale del centrosinistra), spiegare al Fatto quotidiano che per risolvere ogni problema Pd e M5s dovrebbero allearsi in tutte le Regioni.
O per meglio dire, che il Pd, dopo avere ingoiato tutto intero il programma di governo dei grillini (e di Salvini), coerentemente, dovrebbe ora mandar giù pure i loro candidati alle regionali, come in Liguria, dove c’è «una candidatura che dovrebbe andare liscia come l’olio, quella del vostro giornalista Ferruccio Sansa». E pure alle comunali, si capisce (massì, fa’ vedere che abbondiamo!).
A cominciare da Roma e Torino, dove Revelli, tenetevi forte, non crede che «i profili personali di Appendino e Raggi siano di per sé un ostacolo». Questo perché, come si dice sempre in questi casi, «il ragionamento è politico» (e incolmabile si avverte qui la mancanza di un intellettuale come Luciano Bianciardi, pronto a chiosare che, semmai, il ragionamento sarà «squisitamente politico»).
Non voglio parlare di Torino, città che non conosco abbastanza, ma per esperienza diretta posso testimoniare che solo chi non abbia messo piede a Roma una sola volta negli ultimi tre anni può fare un’affermazione del genere senza arrossire.
Prima che dirigenti locali e consiglieri comunali del Partito democratico comincino a darsi fuoco agli angoli delle strade come i bonzi del Vietnam – con l’ulteriore pericolo di estendere l’incendio ai mucchi di immondizia circostanti, e irritare i numerosi gabbiani, già piuttosto scontrosi, che ormai vi risiedono stabilmente – forse sarebbe il caso che il vertice nazionale del Pd prendesse una decisione e dicesse una parola chiara, tracciando un bilancio onesto di questo primo anno di governo giallorosso e di non-alleanza a senso unico.
È evidente che qualunque alternativa è meglio dell’attuale governo, che ancora oggi insiste nel difendere anche i più indifendibili provvedimenti del governo precedente, e nel non fare assolutamente nient’altro, salvo molte conferenze stampa, a beneficio dei personali sondaggi del presidente del Consiglio. Ragion per cui, finché non cambierà il presidente del Consiglio, non cambierà niente di niente.
Certo, se il Partito democratico, e magari anche qualche intellettuale e giornalista in più, si fossero battuti sin dall’inizio per cambiare il segno dell’azione di governo, quando era il Pd ad avere il coltello dalla parte del manico, quando Giuseppe Conte e il Movimento 5 stelle erano in un vicolo cieco, avendo appena rotto clamorosamente con Salvini, dopo averne sposato tutte le scelte più disumane, adesso le cose non sarebbero a questo punto. Ma così va il mondo.
Dopo avere paragonato l’avvocato del popolo a Cavour e a Bearzot, gonfiando come palloni aerostatici i suoi personali sondaggi e le sue personali ambizioni, ora in tanti vorrebbero forse tornare indietro, o quanto meno correggere la rotta, ma non sanno come fare.
È vero, adesso è difficile individuare alternative entusiasmanti. Anche perché un conto sarebbe stato precipitare alle elezioni anticipate all’indomani della caduta dell’esecutivo grillo-leghista, potendo rovesciare su entrambi gli ex alleati il peso del loro fallimento, e tutto un altro conto sarebbe farlo adesso, dopo essersene accollati per intero l’eredità. Cosa potrebbe dire ora il Partito democratico contro Salvini e le sue politiche, ad esempio, in tema di immigrazione e sicurezza?
Resta il fatto che le alternative sono sempre quelle due: insistere o desistere.
E mi pare che il Pd abbia insistito abbastanza, con i risultati che ormai, e alla buon’ora, appaiono evidenti a tutti.
La verità è che in una situazione disperata non restano che soluzioni disperate. Il governo deve cambiare linea, e non lo farà finché non cambierà il suo capo.
Se in parlamento il timore delle elezioni sarà più forte della logica della rappresaglia, qualunque altro equilibrio si troverà sarà migliore di questo, per il semplice fatto che qualcosa è meglio del nulla.
Altrimenti si tornerà al voto, e si tenterà di fare tardi e male quello che si sarebbe dovuto minacciare, con maggiore credibilità, un anno fa, presentandosi come l’unica alternativa al populismo di destra, che va da Fratelli d’Italia al Movimento 5 stelle.
Un populismo che parla la stessa lingua e si nutre delle stesse idee, al di là dei tatticismi del giorno per giorno, che si tratti del Mes o di quota cento, della prescrizione o dell’immigrazione. E sono quelle idee che devono essere combattute e sconfitte, se si vuole un governo diverso, com’è giusto che sia in democrazia.
La ragione per cui finora il Partito democratico non è riuscito a incidere minimamente sulle scelte dell’esecutivo sta nel fatto che, anche qui, si è arreso senza combattere, per paura di perdere ciò che in realtà non ha mai avuto: un governo in cui conta pressoché nulla o un’elezione del prossimo Capo dello stato in cui non si capisce perché i cinquestelle dovrebbero comportarsi diversamente da come si sono comportati finora su tutto il resto.
A ben vedere, qualunque alternativa è preferibile a questa grottesca armata Brancaleone che i democratici si illudono di guidare, e di cui sono in verità prigionieri. Meglio rialzare le proprie bandiere e lanciarsi in una carica disperata, mettendo in conto il rischio di venire sconfitti, che lasciarsi morire così.
Piuttosto che finire come con il governo Monti, unici capri espiatori di un esecutivo guidato da altri (con la non piccola differenza che Monti l’Italia poteva comunque vantarsi di averla salvata dalla bancarotta, in un modo o nell’altro), meglio correre il rischio di finire in minoranza subito, ma per propria scelta, e se necessario pronti anche a una lunga peregrinazione senza meta nel nuovo sistema politico a centralità populista.
A condizione che quel che resta dell’armata grillina e dei suoi intellettuali di riferimento vaghino essi pure senza meta, ma da un’altra parte.