Al momento del suo insediamento, nel febbraio 2014, lo aveva dichiarato «il ministero più importante». Quello attraverso cui «sarebbe passata la ripresa dalla crisi» e che in passato era stato «bistrattato». Forse non è andata così, ma va riconosciuto che Dario Franceschini, arrivato al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo con il governo di Matteo Renzi, si sia dato subito da fare.
A quel periodo, il Franceschini I, vanno fatti risalire provvedimenti come l’Art Bonus, cioè un credito di imposta (è il 65%) per imprese e privati che investono in cultura – e funziona, lo dicono anche le opposizioni – la rimodulazione delle soprintendenze e, soprattutto, la riforma degli enti museali. Più autonomia, istituzione di consigli di amministrazione, direttori con più poteri – e, dati alla mano, funziona anche questo.
Le idee fioccano, alcune buone (Capitale italiana della Cultura, domeniche ai musei) altre meno (Biblioteca dell’Inedito, per fortuna accantonata), ma il ministro è sempre presente: tanto che riorganizza il mondo del cinema e mette mano allo spettacolo dal vivo.
Poi la stagione finisce, la maggioranza cambia e per un anno – è il Conte 1 – e dovrà cedere per pochi mesi la poltrona ad Alberto Bonisoli, che scorpora il ministero e gira il Turismo all’Agricoltura.
Ma è solo una parentesi, visto che già nel settembre 2019 quando la nuova alleanza giallo-rossa prende il potere (ma non cambia il presidente del Consiglio), Franceschini torna in sella.
Riprende il Turismo, congela gli ultimi provvedimenti agostani di Bonisoli e rilancia: la cultura «è contemporaneità», immaginando una legge a favore delle imprese culturali e creative, quelle che producono la nuova cultura («Anche Raffaello è stato contemporaneo») e non si limitano a conservare e gestire l’eredità del passato, ma non fa in tempo.
A febbraio licenzia la legge sulla lettura, di fatto un aumento del Tax credit per le librerie fino a 3.250.000 euro, e poi arriva il Covid.
Il primo anno del Franceschini bis, quello contemporaneista, va diviso a metà: da marzo in poi si tratta solo di affrontare l’emergenza. «L’impostazione del ministero è stata semplice: noi vi chiudiamo e poi vi rifondiamo», spiega Andrea Cancellato, presidente di FederCulture.
I musei, i cinema, i teatri – ma anche gli alberghi, i resort, le agenzie erano serrate. «La strategia è stata emergenziale: attenuazione dei costi, con i primi provvedimenti, la rifusione e la conferma dei bandi che erano già stati assegnati».
A questo ultimo punto va ricondotta, appunto, la riproposizione di Parma come Capitale della Cultura e la conferma dei budget del Fondo Unico per lo Spettacolo utilizzando i parametri dell’anno precedente.
Anche se a suo avviso il traguardo più importante, ottenuto nel Decreto Rilancio (diventato legge il 9 luglio), è l’istituzione del «Fondo per la Cultura, ossia una garanzia di 100 milioni per due anni.
È il punto più interessante perché permette alle imprese culturali di prendere tempo e pensare a come riorganizzarsi», oltre al fatto che investimenti di questo tipo hanno «un effetto moltiplicatore importante, pari a 5 euro per ogni euro investito».
È una misura “di ripartenza”, si può dire, in un mare magnum di rifusioni e bonus (sia quelli per il turismo che quelli per viaggi e cultura) stanziati più che altro per venire incontro alle doléances dei diversi settori e tappare le falle.
Ai primi provvedimenti in favore degli audiovisivi (130 milioni all’inizio, poi diventati 245 solo per il 2020) sono seguite le misure a sostegno dell’editoria (171 milioni finali) e 100 milioni ai musei statali. E gli altri? Dopo le proteste, ecco 20 milioni, poi diventati 30 e infine 50. Non sono tanti, ma è già qualcosa.
Il problema, sottolinea Patrizia Asproni, presidente di Confcultura, «non è relativo a Franceschini o al Mibact, ma al governo, che ha una concezione sbagliata, e limitata della cultura». Lo si vede nello stanziamento di fondi, «tra i più bassi e i meno ambiziosi d’Europa». Se per Conte «gli artisti sono “quelli che ci fanno divertire”, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha rivolto parole molto più profonde e accorate. Ma non è solo quello, ha dato anche sostegno economico immediato».
Adesso servirebbe ripensare al sistema, «con un censimento dei bisogni reali da parte delle strutture museali, per organizzare meglio la ripartizione dei fondi. Pensare a sostenere le strutture piccole, dislocate sul territorio, che sono importanti e che possono rientrare in una nuova definizione del turismo. La mia impressione è che vengano privilegiati i grandi poli», anche perché non si può sempre contare su una Chiara Ferragni inviata da Vogue a girare per il Paese: «Si è parlato tanto degli Uffizi, ma è stata anche al MarTa di Taranto, senza dubbio una struttura meno conosciuta». In generale è un’operazione «win win, in cui guadagnano tutti» ma che non può diventare sistema.
«Piuttosto, serve agire sul modello delle imprese museali, imponendo cambi di orario – allungandolo la sera, visto che i tempi sono più dilatati e i turisti sono cittadini italiani, che lavorano». Ma non è un lavoro che tocca al ministro, «serve un’azione collettiva».
Anche perché, come si è detto, sembra che il modello sia di risposta e non (ancora) di proposta, di interventi e di scontenti.
Per esempio, è solo grazie alle campagne di protesta da parte di musicisti e operatori del settore pop che è stato inserito nel testo finale del decreto un fondo per lo spettacolo dal vivo. «Sono 10 milioni», spiega Annarita Masullo, tra gli organizzatori dell’iniziativa #La musicachegira, con cui hanno portato in piazza personaggi del calibro di Diodato e Manuel Agnelli, «ma ancora non sappiamo il come, il dove, e l’a chi». Cioè le norme di utilizzo.
Ma è già un passo avanti «per un settore che, finora, era sempre stato considerato più simile a un divertimento che a un lavoro» a differenza «della musica colta che è, invece, coperta dai fondi del Fus». L’obiettivo è arrivare lì, ma la strada è lunga.
Quelli che emergono sono, insomma, i nodi del pettine dell’emergenza coronavirus, le falle da tappare per tenere a galla il settore. Anche le gallerie sono scontente e chiedono un Art Bonus specifico (altrimenti non reggono la concorrenza di altri Paesi), per fare un esempio.
Ma soprattutto sono scontenti gli operatori del Turismo, la “T” del Mibact franceschiniano. Secondo Bernabò Bocca, presidente di Federalberghi, gli interventi del governo sono stati «insufficienti».
Lo dichiara in un convegno online organizzato da PwC, con la presenza dello stesso ministro. «Il governo ha stanziato 4 miliardi per il turismo, ma 2,4 sono per il bonus, che di fatto è un aiuto alle famiglie».
Il problema è che al momento «»ha aperto il 60% degli alberghi, un ulteriore 20% nelle città d’arte aprirà a settembre, il 20% non riaprirà. Chi ha riaperto ha un tasso di occupazione del 40-50% contro l’80% di un anno fa, percentuale che scende al 15-20% nelle città d’arte che hanno vissuto del turismo straniero, soprattutto americano». Che si fa, insomma?
Le questioni sono serie, ma Franceschini difende la legge: il bonus vacanze è stato ottenuto da 500mila nuclei familiari, e l’hanno speso «15mila nuclei familiari». Porta liquidità, insomma, e sostegno agli alberghi ma non solo: «Ai ristoranti, agli stabilimenti balneari, ai negozi». Forse anche alle istituzioni culturali?
Il punto è che fronteggiare la crisi è difficile, che il governo ha molti altri problemi e che forse con Giuseppe Conte il Mibact non è più «il ministero più importante».
Va aggiunto che forse non è vero che la Francia ha speso 18 miliardi per il turismo, come affermava Matteo Salvini, ma di sicuro ha avuto una risposta «più pronta per tempismo e organicità, con un approccio ampio» – lo sostiene Valentina Montalto, policy analyst del Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea.
Una questione che è, più che di soldi, di metodo. O di visione e di struttura. E per un ministero «bistrattato» (in un governo improvvisato) non è cosa da poco.