Just did itNike, Adidas e Under Armour: anche i brand dello sport sono in crisi, non solo per il coronavirus

Vendite crollate, licenziamenti in arrivo e strategie commerciali poco efficaci hanno contribuito al bilancio negativo scatenato dalla pandemia. Cui si sono aggiunti anche alcuni scivoloni rispetto al posizionamento su Black Lives Matter

Afp

Durante un’affollata conferenza stampa al MGM Grand di Las Vegas Mike Tyson spiegò ai giornalisti come «tutti quanti hanno una buona strategia, che funziona fino a quando non parto con il primo gancio».

In queste ultime drammatiche settimane, i Ceo di Nike, Adidas e Under Armour possono provare a consolarsi pensando che mentre molti degli avversari di Tyson andavano al tappeto dopo un solo pugno, le loro aziende sono ancora in piedi nonostante i colpi inferti dall’emergenza sanitaria, dalle proteste contro il razzismo e da scelte commerciali scriteriate.

Nike ha appena comunicato che nel trimestre concluso a maggio le vendite globali sono crollate del 38% rispetto a dodici mesi fa, con una perdita di 790 milioni di dollari che fa impressione, soprattutto se paragonata ai 989 milioni di dollari di profitto registrati lo scorso anno. Gli effetti di questo disastro non si sono fatti attendere: John Donahoe, da gennaio a capo dell’azienda di Beaverton, ha comunicato via mail ai dipendenti che nei prossimi giorni inizieranno i primi licenziamenti.

Un colpo pesantissimo per l’immagine dell’azienda, fino a pochi mesi fa convinta di poter reggere l’urto della crisi causata dall’emergenza sanitaria con l’aumento delle vendite nel resto del mondo. La previsione era errata, perché Nike dipende ancora troppo dagli store fisici, costretti a chiudere per mesi a causa della pandemia. Un buco a cui Nike non è riuscita a mettere una pezza nemmeno attraverso il canale dell’e-commerce, ancora poco sviluppato rispetto al peso titanico dei rivenditori all’ingrosso americani, europei ed asiatici.

Ora i tagli al personale potrebbero erodere il credito che Nike ha maturato in questi anni grazie soprattutto all’impegno nella lotta per i diritti civili della comunità afro-americana. Il sostegno offerto ai “suoi” atleti di colore (in particolar modo all’ex quarterback dei San Francisco 49ers, Colin Kaepernick) contro le discriminazioni razziali è servito ad infiocchettare l’immagine di Nike agli occhi dell’opinione pubblica, oltre che – meno prosaicamente – a far crescere il valore della azioni marchiate Swoosh.

Una benedizione sociale che sembra non valere per Adidas, coinvolta nelle ultime settimane in una serie di polemiche che hanno costretto l’azienda tedesca a ripensare al proprio ruolo nel dibattito globale sul razzismo. Il primo campanello d’allarme è suonato pochi giorni dopo l’omicidio di George Floyd quando – mentre tutte le grandi aziende si schieravano a favore della causa di Black Lives Matter attraverso imponenti campagne mediatiche – Adidas non è riuscita a fare di meglio che retwittare quella di Nike.

Una scelta bizzarra, che ha spinto i dipendenti a scrivere una lettera intitolata “Our State of Emergency” con cui è stato chiesto all’azienda di prendere posizione contro le ingiustizie razziali. adidas è tornata nell’occhio del ciclone pochi giorni fa a causa delle dimissioni di Karen Parkin, responsabile delle risorse umane. Parkin era stata travolta dalle polemiche alla fine del 2019 quando, durante un meeting aziendale, aveva definito «fastidiose» le discussioni sulle discriminazioni razziali.

Una posizione diventata insostenibile con il passare dei mesi, che ha costretto il CEO di Adidas, Kasper Rorsted, ad accettare le sue dimissioni dopo più di vent’anni in azienda. Ora l’azienda tedesca – che nonostante un decennio di sforzi culminati nei contratti multimiliardari con l’NBA e molti sport universitari continua ad inseguire Nike – ha finalmente deciso di agire annunciando un investimento di 20 milioni di dollari a favore della comunità afro-americana.

Mentre Adidas e Nike possono usare la loro forza economica e mediatica per togliersi dalle corde e reagire, chi rischia invece di finire k.o. è Under Armour, che potrebbe pagare a caro prezzo una lunga serie di errori commerciali. L’azienda fondata da Kevin Plank nel 1996 ha infatti annunciato nei giorni scorsi di voler recedere dall’accordo di sponsorizzazione con University of California Los Angeles (UCLA), un deal da 280 milioni di dollari.

Oltre a questo, rischiano di saltare anche i contratti con gli university programmes di Berkeley e di Boston College. Impegni troppo onerosi per un’azienda che negli ultimi quattro anni ha visto crollare le vendite ed il valore delle azioni, nonostante o forse proprio a causa degli enormi sforzi economici compiuti per sedersi al tavolo con Nike e Adidas. Oltre a mettere sotto contratto superstar come Steph Curry e Tom Brady, Under Armour ha deciso di puntare tutto sui college sports, concentrandosi solo sul materiale tecnico e dimenticandosi del cosiddetto athleisure trend, quel mix tra sport e fashion che ha permesso a Nike e ad Adidas di rimettere in riga la concorrenza e non cedere quote di mercato.

Un fallimento commerciale che spiega il perché delle difficoltà economiche odierne, a cui ora si aggiungono le probabili cause legali di UCLA e Berkeley, poco felici di dover rinunciare ai loro soldi. Una combinazione pericolosa per Under Armour che – a differenza delle sue rivali – rischia di non alzarsi dall’angolo per il prossimo round.

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