Il silenzio degli innocentiDove sono finiti i riformisti del Pd costretti da Zingaretti ad abbracciare i grillini?

Lo spirito antipopulista non abita più al Nazareno, malgrado a sinistra ci siano molte personalità che non hanno nulla in comune con i Cinquestelle. Eppure non si capisce perché non si facciano sentire. Forza!

Diversi anni fa uscì un libretto molto bello, Il silenzio dei comunisti, un pamphlet in forma di epistolario-conversazione fra tre grandi della sinistra Italiana, Vittorio Foa, Alfredo Reichlin e Miriam Mafai. La discussione divenne poi la base di un testo teatrale di un certo successo per la regia di Luca Ronconi, il quale, con la sua sensibilità di grande intellettuale, osservò che «è interessante tentare un confronto con quelle domande che comportano una riflessione sul futuro: perché sono a tutti gli effetti domande che ci poniamo».

Ed è senz’altro vero che nel carteggio fra quelle tre personalità della sinistra storica emergeva lo squadernare di errori, limiti e, appunto, silenzi del Pci di fronte al «passato delle illusioni», come François Furet definì in un testo fondamentale il fallimento storico del comunismo, e l’evidente grumo drammatico, se non addirittura tragico, nelle coscienze dei tre autori, come d’altronde tragica era stata la vicenda del comunismo.

Oggi che tutto è cambiato, a partire dalla levatura dei personaggi e dei soggetti politici, sembra piuttosto di assistere al silenzio dei riformisti. È una novità per certi aspetti sconvolgente.

Per anni e anni infatti prima nel Partito comunista e poi nei partiti suoi eredi, senza contare le rigogliose stagioni del riformismo cattolico e socialista, non si è parlato altro che di riformismo, di innovazione, di modernizzazione dei programmi e dei linguaggi; mentre adesso fa impressione questo ristagno della battaglia riformista, al di là di sporadici tentativi individuali che, come tali, non hanno mai la forza per diventare lotta politica. E il riformismo si riduce ad almanacco buono per lettori acculturati invece di affermarsi come piattaforma di azione concreta.

Non ci inoltreremo qui nelle ragioni ideologiche di questo silenzio, bastando forse ricordare il doppio micidiale colpo all’economia mondiale (quella del 2008 e quella attuale), a confermare l’inesorabile legge che vuole il riformismo afono durante le grandi crisi di incattivimento dei rapporti internazionali, sociali, umani, incapace di fronteggiare revanchismi nazionalisti, antiparlamentarismi e populismi di ogni tipo, inadeguato a parlare di altro che non sia redistribuzione della ricchezza mentre di produzione di ricchezza bisognerebbe discutere.

Il punto che però merita di essere discusso è capire perché questa afonia dei riformisti abbia preso alla gola proprio il principale partito riformista italiano, il Pd, nel quale invece prevalgono, detto senza acrimonia, riflessi antichi e antiche certezze: dal neo-statalismo (Peppe Provenzano, Francesco Boccia, Emanuele Felice) a una patetica riverniciatura dello schema classe contro classe (l’ostilità mai così forte contro gli imprenditori), a una marginalizzazione dei temi ideali (immigrazione), a una gestione del partito (Pd) meno pluralista di un tempo, fino – soprattutto – a una lettura o cinica o sbagliata delle forze in campo.

Da quest’ultimo punto di vista, rischia di finire annoverata fra le boutade estive la pazzesca accelerazione che Nicola Zingaretti – contraddicendo la sua piattaforma con la quale vinse le primarie un anno e mezzo fa – ha impresso alla questione dei Cinquestelle, considerati adesso non solo un alleato di governo anche per il domani (l’AS, alleanza strategica) ma persino uno dei soggetti fondamentali del centrosinistra, una categoria che, con questa novità, semplicemente cesserebbe di essere tale.

Il centrosinistra infatti (dall’Ulivo in poi, 1996) è uno schieramento plurale con una certa idea dell’Italia: europeismo, apertura, democrazia economica, stato sociale, privatizzazioni, diritti del cittadino, sistema maggioritario, decentramento eccetera. Tutte cose che con ogni evidenza nulla hanno a che fare con il Movimento cinque stelle, un partito fondato sul populismo a-ideologico e post-democratico alimentato dal falso mito della democrazia diretta e del tutto opaco in fatto di vita interna. Ecco perché considerare i grillini di centrosinistra non è un errore, è un crimine culturale.

Ovviamente tutto si può discutere. Ma ecco il punto dolente: dopo la stagione renziana finita nel disastro del 2018, tuttavia anche dopo le elezioni nel Pd è rimasta accesa una fiammella che a quella esperienza, unitamente ad altre vicende del riformismo (si è prima citato l’Ulivo, ma si potrebbero anche richiamare le idee di Walter Veltroni o di Giorgio Napolitano), in qualche modo si richiamava; non casualmente nella corrente della fiammella post-renziana (Base riformista) si ritrovano alcuni protagonisti importanti di quella fase, da Lorenzo Guerini ad Andrea Romano, dai capigruppo Marcucci e Delrio a Luca Lotti a Lele Fiano, Alessandro Alfieri, Simona Malpezzi, Alessia Rotta, Giuditta Pini, Alessia Morani, Salvatore Margiotta e tanti altri.

È poco interessante come si sia deteriorato il loro rapporto con il leader di un tempo, Renzi, e non è questo il punto: anche psicologicamente andrebbe un pochino rimosso il fantasma dell’ex segretario. La domanda piuttosto è come mai tutta l’area riformista (compresi esponenti che militano nella componente di Dario Franceschini, come ad esempio Piero Fassino, di cui ascoltammo in una Direzione di un paio d’anni fa un ragionamento sulle due destre, la Lega e il M5s), come mai tutta quest’area al massimo bofonchi qualche perplessità e sempre a microfoni spenti. Si è visto qualcosa nelle ultime ore ma non sembra sui nodi di fondo: «Purtroppo stiamo registrando che quell’unità cui abbiamo lavorato assieme a Nicola Zingaretti – hanno dichiarato Romano e Alfieri – messa a rischio dalle scelte unilaterali dei vertici del Pd in alcune regioni». Roba locale. Ma sull’accordo in Liguria su Ferruccio Sansa del Fatto Quotidiano nessuno ha qualcosa da dire?

Resta il fatto che un’analisi seria che dimostri che la cultura politica dei grillini, e dunque il loro posizionamento politico, sia cambiato al punto che adesso Paola Taverna o Danilo Toninelli si possano trovare nello stesso schieramento del Pd nessuno l’ha fatta, tantomeno il segretario del Pd: perché non sarebbe una teoria minimamente dimostrabile, essendo il retroterra ideologico di Toninelli e Taverna intrinsecamente di destra. Sideralmente lontano da quello di Roberto Gualtieri, di Enzo Amendola, per non dire di Paolo Gentiloni.

Certamente il famoso senso di responsabilità fa piazza pulita di ogni velleità di aprire una discussione (solo Matteo Orfini pare sfuggire a questa logica lievemente gesuitico-leninista) e se qualche non allineato come Giorgio Gori mette la testa fuori scatta il silenziatore oppure cala la mannaia della scomunica. Infatti non si parla più, se non per interviste o tweet. Eppure non è solo un problema che riguardi i riformisti. Ma anche persone di qualità come Gianni Cuperlo, o Stefano Bonaccini, o sindaci come Dario Nardella e Antonio De Caro. Sembra che non sia mai il momento opportuno: ma è così che muoiono i partiti.

Non sappiamo se al Nazareno stia crescendo la consapevolezza che la predominanza della tattica sulla strategia rischia di sfibrare un partito culturalmente invecchiato. Di solito, se si vuole evitare un’agonia lenta ma inesorabile bisognerebbe che qualcuno si muovesse, che i riformisti ricomincino a parlare di un nuovo programma riformista per l’Italia post-Covid. E basterà un niente per spaccare il vetro opaco del silenzio.

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