In tutti i principali paesi occidentali la sinistra ha abbracciato per una lunga fase, tra gli anni 90 e i primi del 2000, politiche liberali e pro-mercato, come le definirebbero i favorevoli, o neoliberiste e filo-padronali, come le chiamerebbero i contrari. È accaduto negli Stati Uniti con Bill Clinton, e in buona misura anche sotto Obama, secondo la ricostruzione critica che ne ha fatto di recente Adam Tooze («Lo schianto», Mondadori). È accaduto nel Regno Unito con Tony Blair e la celebre terza via di Anthony Giddens. È accaduto in Germania con il Neue Mitte («Nuovo centro») di Gerhard Schröder. E naturalmente anche in Italia, con i governi dell’Ulivo e poi del centrosinistra, con trattino e senza trattino (questa è per i lettori più anziani, ma tanto i giovani sanno usare Google).
La concreta applicazione di tali ricette, e lo stesso lessico impiegato nel definirle e propagandarle, variava naturalmente da paese a paese, a seconda della storia e delle situazioni concrete. Nell’Italia appena uscita dalla crisi della Prima Repubblica, con lo spettro della bancarotta e dell’esclusione dal processo di integrazione europea, il principale banco di prova erano le grandi privatizzazioni, avviate dai governi Amato e Ciampi nel 1992-93 e portate avanti da tutti i successivi governi di centrosinistra.
Negli Stati Uniti, non essendoci mai stata l’Iri, non si è mai posta nemmeno la questione delle privatizzazioni. In Italia è stata talmente dominante che ancora tre decenni dopo, quando pure il vento era ormai girato e il libro di Mariana Mazzucato, «The Entrepreneurial State», era un best seller in tutto il mondo, Laterza lo traduceva con «Lo Stato innovatore» (per timore, evidentemente, che «Lo Stato imprenditore» apparisse troppo poco innovativo).
Sta di fatto che in tutti i sopracitati partiti della sinistra occidentale, complice anche la grande crisi economica del 2007-2008, i leader emergenti hanno tentato di affermare piattaforme politiche e programmi di politica economica profondamente diversi dai precedenti, in aperto contrasto con i loro predecessori. È la linea che in America ha caratterizzato le campagne prima di Bernie Sanders e poi dei giovani parlamentari che sulla sua scia hanno spostato a sinistra l’asse dei democratici, in un durissimo scontro con Hillary Clinton (prima) e con buona parte dell’establishment del partito (prima e poi). È quello che è accaduto nel Regno Unito, nella lotta che ha preceduto e accompagnato l’intera parabola di Jeremy Corbyn, in uno scontro incessante con la vecchia guardia blairiana.
Tanto negli Stati Uniti quanto nel Regno Unito – e in buona parte degli altri paesi che si potrebbero citare – la battaglia ha conservato dunque una sua linearità e una sua leggibilità: gli incanutiti oppositori delle leadership e delle politiche «centriste» degli anni 90 (o liberali, o neoliberiste, o comunque le si voglia chiamare) si sono presi la loro rivincita, almeno in parte, sulla spinta di quello che i loro epigoni italiani amano chiamare il «cambio di paradigma» seguito alla crisi dell’economia mondiale.
Il paradosso dei loro epigoni italiani, tuttavia, sta nel fatto che da noi, a guidare la rivolta contro una sinistra accusata di essere stata «troppo subalterna e intimorita di fronte alle grandi imprese globali industriali e finanziarie» (come ha detto lunedì Goffredo Bettini in un’intervista al Corriere della sera), contro quella sinistra che avrebbe regalato i beni pubblici a privati senza scrupoli, che avrebbe venduto l’anima e il paese al grande capitale, non sono coloro che a suo tempo avevano contestato tali decisioni. Sono quelli che le avevano prese.
Sono proprio loro, quelli che negli anni ’90 privatizzavano le autostrade, a sostenere oggi – con i loro consiglieri, alleati, discepoli e successori – che per uscire dalla subalternità al neoliberismo bisogna allearsi con i grillini e farsi guidare da Giuseppe Conte. Proprio quel Giuseppe Conte impegnato in questi giorni a ripetere che sulle autostrade «è successo qualcosa di assolutamente inedito nella storia politica italiana», perché il governo avrebbe «affermato un principio, in passato calpestato: le infrastrutture pubbliche sono un bene pubblico prezioso, che deve essere gestito in modo responsabile, garantendo la piena sicurezza dei cittadini e un servizio efficiente». E chi sarebbero quelli che in passato l’avevano calpestato, questo benedetto principio?
Di più, in questa «pagina inedita della nostra storia» dice Conte che finalmente «l’interesse pubblico ha avuto il sopravvento rispetto a un grumo ben consolidato di interessi privati». Chi sono dunque quelli che fino a ieri avrebbero ceduto a tale ben consolidato «grumo» di interessi privati?
Nel merito, su quanto e come i governi di sinistra degli anni novanta abbiano fatto bene o male, ogni opinione è ovviamente legittima, in Italia come in America, Regno Unito o dove volete. Ma è davvero curioso che in Italia, a suonare la carica contro la sinistra neoliberista, siano da anni gli stessi ministri e capi di governo che allora guidavano i processi di privatizzazione e liberalizzazione dell’economia, che nelle interviste proponevano di privatizzare pure Eni e Enel al 100 per cento, che organizzavano le conferenze internazionali con Clinton e Blair facendo parlare i giornali amici di «Ulivo mondiale» (il senso della misura non è mai stato il nostro forte).
Ma naturalmente a sostenere queste posizioni oggi sono anche dirigenti e intellettuali più giovani. Intervistato giovedì dal Foglio, il responsabile economia del Pd, Emanuele Felice, ha detto ad esempio che bisogna distinguere l’ideologia neoliberale dall’ideologia liberale, perché la prima «assolutizza l’arricchimento individuale» mentre la seconda «si fonda sui diritti dell’uomo». Lo stesso giorno in cui l’intervista veniva pubblicata, alla Camera dei deputati il Partito democratico votava per il rifinanziamento dei lager libici.