Fronte anti SalviniLa raffinata strategia del Pd è quella dell’Ulivo a 5 stelle

Spente tutte le correnti, l’unico stratega rimasto in campo è Goffredo Bettini, il quale in nome del “senso di responsabilità” inibisce ogni velleità di discussione interna, rinviandola a chissà quando. E così i dem hanno rinunciato a guidare il Paese in prima persona

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La stagnazione del dibattito interno al Pd fa galleggiare l’unica proposta politica in campo, quella spiegata con chiarezza da Goffredo Bettini al Corriere della Sera. A parte alcune recenti considerazioni di Giorgio Gori, subito “scomunicate” in quanto derubricate a mera richiesta di cambio di leadership, e alcune note critiche di Dario Nardella e Tommaso Nannicini, praticamente nulla si muove in un partito che pure annovera al suo interno “sensibilità diverse”, come si diceva ai tempi del centralismo democratico quando era vietato parlare di correnti.

In effetti, da questo punto di vista, Nicola Zingaretti ha ottenuto quello che voleva: il silenzio delle correnti in nome del famoso e infallibile “senso di responsabilità” che inibisce ogni velleità di discussione interna, rinviandola a chissà quando.

Così, l’unica linea strategica è quella di Bettini. Una linea che, mai così esplicitamente, testimonia la rinuncia del Pd a governare il Paese in prima persona e a chiedere agli italiani il voto esattamente per questo.

In parole povere, nello schema del mentore di Zingaretti, alle elezioni si confronteranno due coalizioni (sebbene il sistema sarà proporzionale): la destra sovranista contro tutti gli altri, una sfida – per Bettini – del tutto aperta.

“Tutti gli altri” sono questi: «L’insieme delle sinistre, Conte con la sua attuale forza politica, i Cinquestelle e un eventuale polo liberaldemocratico». Una specie di Ulivo a cinque stelle. Con Giuseppe Conte di fatto leader dell’alleanza, una collocazione che altro non è se non la traduzione della famosa frase zingarettiana su Conte come «punto di riferimento dei progressisti».

Non è chiaro, ma forse nemmeno al proponente, se anche Forza Italia possa stare dentro questo schema: il “polo liberaldemocratico” vuol dire tutto e vuol dire niente ma è anche possibile che si possa produrre una rottura di Berlusconi con i sovranisti e portare gli azzurri “di qua”.

Nello scontro finale Salvini-Conte il Pd sarebbe una sorta di “massa critica” della nuova alleanza fra centrosinistra e grillini, alleanza peraltro che per ora sta solo nella testa del gruppo dirigente del Nazareno, sarebbe il partito di una sinistra senza più lacci e lacciuoli di derivazione liberale e garantista con il compito di portare qualche milione di voti all’avvocato del popolo mentre i Cinquestelle garantirebbero i consensi dell’Italia rabbiosa e post-democratica. A Renzi e Calenda verrebbe assicurata una rappresentanza parlamentare e il diritto di portare qualche idea di governo.

Il progetto ha un senso, al netto dell’ambiguità costitutiva del grillismo che gli impone di non schierarsi (e obiettivamente nulla lascia intravedere un qualche cambio di prospettiva da parte di Vito Crimi e soci), ma non può sfuggire che mai prima d’ora il centrosinistra, e il suo partito più forte, ha rinunciato così apertamente a dirigere il corso della politica italiana.

La stessa investitura di Romano Prodi nel 1995 avvenne con la formula dalemiana che suonava come una concessione, se non addirittura come un utilizzo strumentale della figura del Professore («Caro Professore, noi le conferiamo la nostra forza…»), come tappa intermedia al governo diretto del Pds, che poi effettivamente si realizzò con lo stesso D’Alema a palazzo Chigi nel ‘97.

Il realismo di Bettini poggia sul fatto che il Pd non ha un nome forte come candidato alla premiership, figura che istituzionalmente non esiste ma politicamente sì. E in questa logica di rinuncia a governare in prima persona, Zingaretti è un segretario perfetto, il simbolo di questa mancanza di ambizione.

L’altro nome, quello di Stefano Bonaccini, ha maggiori caratteristiche di governo ma pare anch’egli sulla linea strategica bettiniana, magari interpretata più “muscolarmente”. Almeno per ora. In altri termini, non siamo solo alla fine della vocazione maggioritaria ma proprio alla abdicazione della volontà di governare l’Italia mettendoci la propria faccia.

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