L’opposizione supplica i suoi sostenitori di non tacere, la piazza non smette di contestarlo e l’opinione pubblica internazionale chiede chiarezza sul recente risultato elettorale. Lo considerano l’ultimo dittatore d’Europa, ma la vittoria del 9 agosto, su cui anche le istituzioni europee chiedono trasparenza, sancisce di fatto il suo sesto mandato.
Aleksandr Lukašenko, al potere dal 1994, è di nuovo presidente della Bielorussia, il Paese che, nel tempo, ha letteralmente trasformato in qualcosa di sua proprietà. Un luogo, cioè, dove la repressione del dissenso, le intimidazioni nei confronti di attivisti e giornalisti e le violazioni dei diritti umani sono da 26 anni parte della quotidianità.
E se Cina e Russia, in queste ore, si sono complimentate per il risultato elettorale, l’Unione europea, che prima del voto auspicava elezioni libere, pacifiche e sicure, ora analizza con preoccupazione il contesto politico bielorusso.
Le reazioni al voto
Intanto la principale avversaria, Svetlana Tikhanovskaya, moglie di Sergei Tikhanovsky, candidata al posto del marito finito in carcere dopo che aveva contestato pubblicamente Lukašenko e dopo aver espresso la volontà di correre contro di lui, ha presentato un reclamo ufficiale alla Commissione elettorale centrale per contestare il voto.
Uno dei più criticati degli ultimi anni, che ha portato in strada migliaia di contestatori e che conta già un morto, 3mila arresti e numerosi reporter (indipendenti) fermati o irreperibili. «Non c’è posto in Europa per la violenta repressione di manifestanti pacifici. I diritti fondamentali devono essere rispettati in Bielorussia. Chiedo alle autorità che i voti delle elezioni di ieri siano contati e pubblicati accuratamente», ha scritto, sul suo profilo Twitter, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen.
Anche Charles Michel, a capo del Consiglio europeo, ha condannato le violenze del regime contro i manifestanti e la Polonia, tramite il suo primo ministro, Mateusz Morawiecki, ha chiesto la convocazione di un vertice europeo straordinario perché «le autorità hanno usato la forza contro i loro cittadini, che chiedevano cambiamenti nel Paese» e ha aggiunto: «Dobbiamo essere solidali con i bielorussi nel loro desiderio di libertà».
Il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, ha espresso la stessa preoccupazione, definendo «inaccettabili» gli episodi violenti, e ha aggiunto: «La trasparenza del processo elettorale deve essere garantita».
Le preoccupazioni di Bruxelles
A preoccupare Bruxelles, infatti, non sono soltanto le immediate conseguenze prodotte dall’ultimo esito elettorale, ma soprattutto la situazione politica del Paese, che da sempre rappresenta un’area complicata per le istituzioni europee, perché a metà tra l’Est e l’Ovest.
L’Unione, negli anni, ha tenuto particolarmente sotto osservazione le condizioni sociali bielorusse, tentando la strada del dialogo e utilizzando (dove possibile) le misure restrittive per spingere il regime a non violare i diritti umani.
Ma i rapporti tra Minsk e Bruxelles, tesi già dalla metà degli anni Novanta, potrebbero deteriorarsi ancora. Secondo quanto riportato da uno studio del Parlamento europeo sul ruolo dell’Unione nella difesa dei diritti umani in Bielorussia dal 2016, nonostante i tentativi di avvicinamento, da parte delle istituzioni europee, con il regime di Lukašenko, la situazione del Paese resta critica ed è migliorata di poco, soprattutto quando si parla di difesa dei processi democratici.
Le prime forme di dialogo con Minsk pensate nel 1995, alla fine, non avevano prodotto risultati concreti e, anzi, si erano arenate con il Partnership and cooperation agreement (Pca), un patto mai entrato in vigore e che includeva un’importante clausola sullo sviluppo della democrazia. Che il leader bielorusso ha sempre osteggiato.
Perché la Bielorussia è importante per l’Unione europea (e viceversa)
Sullo scacchiere internazionale, essendo la Bielorussia di Lukašenko uno snodo fondamentale a metà tra il mondo occidentale e le influenze russe, Minsk è sempre stata oggetto di preoccupazione, in particolare dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina e l’espansionismo (non solo) politico di Vladimir Putin.
Soprattutto negli ultimi anni, infatti, le istituzioni europee non hanno più potuto guardare alla realtà bielorussa esclusivamente come all’ultima dittatura in Europa, ma anche come all’unico Paese del partenariato orientale ancora in grado di controllare il proprio territorio.
E se i tentativi di dialogo si sono intensificati (soprattutto dal 2016 in avanti), le circostanze sociali su cui l’Europa è chiamata a vigilare restano critiche, nonostante alcuni (lievi) passi in avanti. Intimidazioni, pressioni sulla stampa, carcerazioni preventive e arbitrarie, restrizioni alle libertà individuali, soffocamento del dissenso e violazioni continue dei diritti civili hanno fatto dello Stato dell’Est un luogo particolarmente fragile.
Per cercare di imporsi, l’Unione ha utilizzato (e continua a farlo) alcune misure restrittive, come l’embargo, il travel ban e il congelamento delle risorse che, per Lukašenko, sono risultate fondamentali visto che, nei momenti di maggiore difficoltà, lo Stato ha beneficiato dell’assistenza economica europea.
Il leader, inoltre, per quanto riguarda la politica estera, ha cercato di mantenere una sorta di equilibrio tra la Federazione russa e l’Occidente, mostrandosi il più neutrale possibile.
Un regime inamovibile
Come ricostruito dal documento europeo, le concessioni del presidente Lukašenko all’Unione europea, come il rilascio di alcuni prigionieri politici e il programma di dialogo sui diritti umani, sono state ampiamente motivate dagli sviluppi geopolitici esterni, piuttosto che dall’attrazione che la politica europea esercita su Minsk.
Infatti, nonostante le indicazioni, non si sono registrate riforme strutturali del sistema, utili a migliorare le condizioni sociali. Il governo bielorusso, come dimostrato anche dall’ultima tornata elettorale, non è ancora in grado di affrontare un processo di democratizzazione che, secondo la visione del regime, destabilizzerebbe il sistema e minerebbe la stabilità interna dello Stato di cui Lukašenko è diventato “padrone”.
In Bielorussia, dall’intervento europeo del 2016, non si sono registrati miglioramenti sostanziali per quanto riguarda la difesa dei diritti umani (nonostante le richieste insistenti dell’Europa, che hanno basato ogni accordo sulla comunanza dei valori, come il rispetto della persona).
Anche se in più occasioni è stato chiesto di sospenderla, la pena di morte, per esempio, è rimasta (con quattro esecuzioni nel 2016 e due nel 2017, rese note soltanto un anno dopo), facendo dello Stato l’ultimo in Europa a praticarla.
I tentativi dell’Unione per il dialogo
Viste le difficoltà nell’ottenere un concreto miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini bielorussi tramite i vertici statali, l’Unione, come segnalato dal Parlamento europeo, ha cercato di coltivare e stabilire contatti personali più diretti, con l’obiettivo di interagire al meglio con tutte le parti sociali.
Ma dalla sua ascesa al potere nel 1994, Lukašenko ha dimostrato di saper condurre il gioco in più occasioni (l’ultima con la feroce repressione del post voto).
I rapporti tra il leader bielorusso e i vertici europei avevano iniziato a incrinarsi all’inizio del 2000, proprio a causa dei metodi adottati dal presidente nei confronti di chi esprimeva dissenso. Le prime sanzioni europee erano arrivate nel 2004, in risposta alla sparizione di due politici dell’opposizione e per la violazione degli standard elettorali.
E più di recente, nell’ottobre del 2014, l’Unione aveva aggiornato (ed esteso) le sanzioni fino al 2015 (seguendo una cadenza annuale), sottolineando la volontà da parte della Bielorussia di non rispettare i patti. Le cose non sono migliorate e nel febbraio del 2017, il Consiglio europeo ha deciso di prolungare le misure restrittive per un altro anno.
L’ipotesi delle sanzioni future
L’idea di un aumento delle sanzioni resta una delle possibilità che l’Europa conserva per far sentire la propria voce a Minsk. Tuttavia, l’esito non risulta mai scontato,perché per imporre questa misura è sempre necessaria l’unanimità dei membri (non garantita dal veto del presidente ungherese Viktor Orbán che, già a giugno, si era detto contrario a disposizioni di questo genere nei confronti di Lukšenko). Inoltre sul versante orientale d’Europa incombe il peso di Mosca, che mai come ora mantiene un’influenza ingombrante.
Per tradizione e potere. A giugno, l’Unione europea si aspettava che la Bielorussia invitasse ufficialmente l’Osce e l’Odhir (l’istituzione principale dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) a monitorare le elezioni (auspicando che fossero sicure e libere). Ma le cose sono andate diversamente. E non per caso.