Vi sconsiglio di leggere questo articolo. Davvero, prendete dallo scaffale un Charles Dickens, sarà più allegro. Oggi, 25 agosto, è il giorno in cui ho deciso di svelarvi le più turpi e impresentabili verità che mi riguardano. Non abbellirò come al solito, ah no. Oggi è il giorno in cui si scosta la tenda di Oz. Se cocciutamente continuate a leggere, tenete sottomano il numero di Amnesty International: vi urgerà chiamarli.
Devo cominciare con una premessa, e la premessa è: beati voi che quant’è scema l’umanità l’avete scoperto quando ve la siete ritrovata sui social, perché vostra è l’illusione che prima fossimo intelligenti.
Noialtri realisti che facevamo da prima lavori sui quali il pubblico si ritenesse in grado di dir la propria avevamo già nel Novecento una mezza idea della diretta proporzione tra incapacità del pubblico di capire cosa stesse valutando e perentorietà del giudizio.
Conservo lettere, mail, persino fax (su carta termica) d’insulti mandati a radio dove conducevo programmi o giornali dove scrivevo, e la statistica è impietosa: sono venticinque anni di roba, e non ce n’è mai uno che non dico ti faccia pensare che la sua obiezione abbia un senso, ma anche solo che l’abbia saputa formulare in maniera ficcante.
Poi, la settimana scorsa, il miracolo.
È successo sulla bacheca Facebook d’uno scrittore che aveva linkato il mio articolo sulle dolenti madri riflessive. Il poverino aveva messo lì una cosa che aveva trovato divertente leggere, e sotto c’erano duecento commenti ordinari: quanto non sa scrivere, quanto non è spiritosa, quanto si finge colta. Scorrevo le copie di mille riassunti, quando è arrivata lei.
Non aveva dignità di cognome (cioè: non lo indicava su Facebook), altrimenti avrei recuperato l’indirizzo del luogo in cui villeggia e le avrei mandato dei fiori: la precisione va premiata, anche quando ti ferisce. Mica puoi prendertela con lo specchio se ti riflette.
Scriveva questa Barbara Senzacognome, unica commentatrice nella storia della mia vita a vedere la verità e a saperla crudelmente riportare: «Una volta la Soncini mi faceva invidia: sola libera cinica ricca e tutta lavoro e viaggi. Da un po’ di tempo è più informata di me su chat di classe dinamiche scolastiche ecc. Ma ci parlasse dello Chateau Marmont».
Ora.
Potrei barare.
Potrei usare qualche spasmodico trucco di radianza per dirottare l’attenzione, dire che sono iscritta a tutti i gruppi di mamme e mi faccio inoltrare tutte le chat di classe perché sono convinta che lì dentro ci sia il Grande Romanzo Italiano. Non sarebbe neanche una balla.
Potrei dire che mi piace deludere le aspettative e spiazzare il mio pubblico: voi volete alberghi di lusso e cronache dal bordo della piscina, e io vi do scorci di squallido paese reale.
Ma il punto è un altro. Ed è che altro che Chateau Marmont: questa è la mia estate a Guantanamo.
È cominciata a novembre.
Quando il condominio ha annunciato a noi inquilini che dovevamo togliere i motori dell’aria condizionata dai balconi, perché si accingeva a tinteggiare le facciate interne, e i balconi dovevano essere liberi acciocché gli operai si muovessero più agevolmente.
Questa cosa che non dovevamo osare intralciarli l’hanno presa molto sul serio: sul mio balcone c’era un delizioso bidone giallo per quello che a Bologna chiamiamo “rusco” e nel resto del paese “spazzatura”, me l’hanno sequestrato e quando ne ho chiesto la restituzione sono stata redarguita per aver osato creare un incomodo.
Molti anni fa vissi per un periodo in un residence. Dovevano consegnarmi una casa che non era pronta, dissi «resto due settimane», il portiere rispose «dite tutti così»: ci restai tre mesi. E ho abbastanza amici ricchi da averli sentiti tutti bestemmiare quando decidono di ristrutturare casa e i lavori vengono consegnati con mesi di ritardo. Insomma: avrei dovuto essere preparata.
Ma, se nessuno si aspetta l’inquisizione spagnola, potevo io aspettarmi a novembre che ad agosto sarei molta di caldo, in una casa senz’aria condizionata e con impalcature dai tre lati tappate con una plastica che fa l’effetto gigantesca vivanda avanzata avvolta nel cellophane e impedisce la circolazione anche di quel filo d’aria che ogni tanto ora la sera pare esserci? (Lo so perché scendo in cortile a controllare quanti gradi si percepiscano in meno rispetto a dove abito io: al piano alto d’un contenitore d’avanzi sigillato).
Sì, certo, i due mesi di fermo del cantiere per il virus, ma avevano annunciato che avrebbero finito a fine aprile, anche aggiungendoci due mesi siamo comunque in zona tortura. Il portiere, quando chiedo notizie d’una data certa di fine pena, mi dice che non ne vuole sapere niente. Abbiamo optato per rassegnazione e omertà, noi avanzi d’un frigorifero che non rinfresca e che nessuno ripara, noi che facciamo la muffa dentro al cellophane. (In Chicago, il musical, c’è un brano che s’intitola Mr Cellophane, e in esso il personaggio dice che un uomo è fatto di più che d’aria: è stato evidentemente scritto da qualcuno che l’aria l’ha sempre avuta, che non sa che dentro il cellophane di aria non ce n’è; venga a vivere qui, dentro al Domopak, e poi ne riparliamo):
Le amiche passano da casa e mi guardano con struggimento: non è solo caldo, è anche buio. L’unico vantaggio dell’estate, la luce, è azzerato dal fatto che, per montare i ponteggi, mi hanno chiuso d’imperio le persiane.
Quando ho protestato e detto che non era pensabile stare mesi al buio, era una tortura, era Guantanamo, i tizi del cantiere mi hanno guardata come una pazza, sostenendo che nella loro carriera edilizia nessuno si fosse mai lamentato d’un’inezia del genere (temo che credessero “Guantanamo” fosse il nome d’un cocktail).
Le amiche passano da casa e, se sono avvocati (abbiamo tutti un’amica avvocato), suggeriscono di protestare perché, per ragioni di sicurezza, le impalcature in agosto vanno smontate: metti che mentre sono allo Chateau Marmont mi entrino i ladri in casa.
Le amiche passano da casa e mi offrono caritatevolmente la loro, stanno partendo per le vacanze, davvero, non fare complimenti, c’è la luce del giorno e persino l’aria, qui chissà quando finiscono, com’è che ci sono le impalcature ma non c’è nessuno sopra?
In effetti, a parte quei tre in cortile con cui protestai per il sequestro del bidone del rusco e i sigilli alle persiane, non ho mai visto nessuno lavorare sulle impalcature che m’hanno rovinato la vita.
Fino al 18 di agosto, quando – mentre, nuda e con trippe sudate e sballonzolanti, svolgevo l’attività di lavare i piatti, un livello di glamour che allo Chateau Marmont avrebbero chiamato la vigilanza per rimuovermi dalla delicata vista dei loro ospiti – un operaio ha aperto d’imperio le persiane del balcone, dicendo che doveva ripavimentare. Il 18 agosto; quando, dieci mesi dopo avermelo fatto sgomberare, i muratori hanno deciso fosse tempo di lavorare sul mio balcone. Ci hanno impiegato circa tre quarti d’ora, per mettere le mattonelle nuove. I bicchieri neppure erano asciutti, e loro già avevano finito. Dopo soli dieci mesi di carcere preventivo.
Il giorno dopo, sovreccitata per questo grande progresso, e fingendo di non accorgermi che la mia parte di facciata non era ridipinta manco per niente, ho fermato un tizio in cortile chiedendogli quando avrebbero finito. Mi ha detto che non se ne parla per qualche mese, che le impalcature dalla mia parte di palazzo non le levano perché servono per arrivare sul tetto (siamo gli ultimi rimasti prigionieri, dev’essere un esperimento sociologico, vogliono vedere se un palazzo di milanesi fa la rivoluzione, imbraccia i forconi, si ribella alla sorte incellophanata).
Poi sono uscita a prendere aria, e mi sono resa conto che quello cui avevo chiesto mica sapevo chi fosse. Un architetto, un passante, un inquilino del Domopak. Chissà se era autorevole o mitomane.
Chissà se entro l’inverno smonteranno le impalcature, mi daranno il permesso di rimettere il bidone giallo sul balcone, mi restituiranno la luce, mi diranno accenda pure l’aria condizionata, adesso che nevica. Chissà se avrò altri temi di conversazione, oltre a foto di persiane chiuse e salotti luminosi divenuti celle buie.
Chissà se entro l’inverno la mia vita tornerà a essere tutta cocktail e luccichii, dopo quest’anno di castigo nient’affatto beato. Chissà se potrò diventare una di quelle che si lamentano perché a spasso si sentono soffocare con la mascherina, invece che essere questa tremendissima versione di me, una che – quando le chiedono come sta – risponde: «L’hai letto Casa desolata?». (A quelli che non l’hanno letto non posso prestarlo: non c’è abbastanza luce, in casa, per ritrovare i classici della letteratura. Magari a gennaio).