Non convegni, ma scelteIl Partito democratico deve essere il perno di una costituente progressista, dice Maurizio Martina

Ci scrive l’ex segretario del Pd, che partecipa al dibattito nato su Linkiesta dopo la lettera di Goffredo Bettini: «Rivendico la decisione di costruire l’attuale maggioranza per rispondere ai rischi della deriva del Papeete. A distanza di un anno da quel passaggio, vedo bene i limiti di questa esperienza ma ne riconosco anche i pregi per l’Italia»

Il dibattito sulla prospettiva del Partito Democratico aperto da Linkiesta merita di essere seguito perché ricco di spunti, cercherò anch’io di offrire qualche ulteriore riflessione. Dico subito che non mi convincono i ragionamenti “piegati” esclusivamente sulla manovra tattica delle alleanze. Non che non serva anche questo, ci mancherebbe. Ma manca davvero qualcosa. Innanzitutto io penso che dovremmo domandarci se, dopo tutto quello che è successo in questi mesi che hanno sconvolto letteralmente il mondo, le ragioni fondative del Partito Democratico siano più urgenti e necessarie oppure no.

E la mia risposta non può che essere affermativa. Dopo la pandemia e nel pieno di una cambiamento radicale come quello che stiamo vivendo, le ragioni che hanno portato alla fondazione di questo partito come soggetto unitario dei progressisti e dei riformisti italiani sono più necessarie che mai. Anziché discutere di coalizione a due o tre gambe, sentirei il bisogno di ripartire innanzitutto da questa consapevolezza. Perché proprio ora il Paese ha bisogno di una grande forza unitaria del centrosinistra, capace di caricarsi sulle spalle le responsabilità dei cambiamenti che gli italiani dovranno affrontare nel nuovo tempo che viviamo, con la crisi più pesante dal dopoguerra e le tre grandi transizioni – demografica, tecnologica e ambientale – che stanno già modificando la nostra vita. È troppo? Beh, io dico che sarebbe davvero troppo poco non riflettere a partire da qui.

Tocca al Partito democratico aprire questa discussione anche per gli altri, perché così si misura la differenza tra un grande partito e altre formazioni. Servirebbe un rilancio ora sul terreno del progetto politico. Chiamatela come volete, costituente o cantiere, ma ciò che conta è la capacità di portare fuori dagli anfratti difficili delle forze del centrosinistra per come le conosciamo, una proposta di partecipazione e impegno che si rivolga ai tanti che stanno aspettando la possibilità di poter dare una mano a costruire un nuovo impegno dei progressisti e dei riformisti. Il contrario dell’autosufficienza. Un passo che rimetta in discussione gli attuali assetti cristallizzati, che spiazzi tutta la politica, anche a destra, e che diventi “la novità” come ce ne sono state altre nella nostra storia, quando abbiamo avuto il coraggio di muovere in avanti le scelte e di non fermarci a fotografare gli equilibri dati.

Questo è quello che servirebbe oggi. “Se non ora, quando” mi viene da dire. E non si pensi che sia un parlar d’altro rispetto al paese reale. Perché se non vogliamo che la crisi sanitaria si traduca automaticamente in crisi economica e sociale e magari poi anche in crisi democratica, l’idea di una forte novità dal lato del progetto politico può spezzare questa catena rischiosa e restituire al centrosinistra la capacità di guidare i processi.

Io rivendico la scelta di un anno fa di costruire l’attuale maggioranza per rispondere ai rischi della deriva del Papeete spaccando l’asse che aveva dato vita alla prima esperienza giallo-verde. A distanza di un anno da quel passaggio, vedo bene i limiti di questa esperienza ma ne riconosco anche i pregi per l’Italia, prima di tutto nel quadro del confronto europeo. Perché sarebbe andata molto diversamente poche settimane fa a Bruxelles se al posto di questo Governo ci fosse stata ancora l’opzione giallo-verde. E la differenza non è certo di poco conto. Ciò detto, vedo anch’io che il percorso di cambiamento del Movimento Cinque Stelle non si è ancora completato e fa fatica a muoversi. Allo stato attuale delle cose questa maggioranza è un cartello di forze ma non è una coalizione e questo rende tutto più difficile e faticoso. Ma è anche per questo che dico che il Partito democratico dovrebbe muovere dal lato di una sua forte riprogettazione politica. E alzare l’asticella innanzitutto a partire da sé.

Anche perché pure noi non bastiamo di fronte a ciò che è accaduto. Troppo spesso siamo autoreferenziali. Ancora oggi ci facciamo dettare le scelte da logiche correntizie fini a se stesse, che spesso fanno scomparire il merito e il ragionamento politico. Non va bene. Siamo anche troppo romanocentrici, pensiamo che quasi tutto inizi e finisca nei palazzi dentro il Raccordo Anulare quando invece, specie al nord, servirebbe ora un grande impegno in particolare verso le forze produttive del lavoro e dell’impresa. Quello dovrebbe essere il cuore della nostra iniziativa insieme al più importante investimento in sapere e formazione permanente mai realizzato nella storia del Paese.

Non convegni, ma scelte. Come quella avanzata qualche giorno fa da Ruffini e rivolta al lavoro autonomo per superare definitivamente il meccanismo degli acconti e dei saldi d’imposta per pagare effettivamente su quello che si incassa. Come il taglio strutturale del costo del lavoro per chi assume stabilmente donne e giovani. Come la proposta di un salario di formazione universale per supportare chiunque perda il lavoro insieme a un pacchetto di servizi garantiti per la propria riqualificazione.

O come la traduzione pratica del nostro sostegno all’utilizzo del Mes per farci capire e non rimanere appesi a ragionamenti astratti: quelle risorse devono servire, ad esempio, per realizzare in tutti i tremila piccoli e medi comuni troppo distanti dagli ospedali una rete tecnologica avanzata di telemedicina mai realizzata fino a qui. Insomma, per discutere della nostra prospettiva bisogna tenere i piedi per terra ma occorre anche alzare le sguardo. Proviamoci sul serio. Perché meno di questo sarebbe davvero troppo poco.

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