«Si fa bene ad avere un diario, ed è utile che tanta gente lo sappia». Era una delle caratteristiche di Giulio Andreotti: riuscire in una frase ad esprimere un mondo intero, sempre con un’immancabile ironia che ha conquistato anche gran parte degli avversari politici. E oggi arriva in libreria un saggio, “I diari di Andreotti” (Solferino), curato dai figli Serena e Stefano, che raccoglie proprio quei diari, colmi di scritti intimi e personale e appunti da cui però emerge chiaramente la rete di rapporti di Andreotti, i suoi incontri e anche le sue simpatie e antipatie, determinanti molto spesso nelle scelte politiche che nel corso degli anni sono state fatte. «Tutto è nato dopo che era emersa un’altra storia falsa su mio padre e che io e Stefania volevamo appurare», racconta a Linkiesta Stefano Andreotti.
Cioè, quale?
In pratica avevamo letto che circolavano delle foto di papa Giovanni Paolo II in piscina. Tenga conto che i tempi erano diversi da oggi: era uno scandalo allora. Secondo quella storia alcune persone avrebbero contattato mio padre affinché, tramite Licio Gelli, si riuscisse ad evitare quella pubblicazione. Ovviamente la storia era tutta una menzogna.
Però la ricerca vi ha portato a scrivere un libro con i diari segreti di suo padre. Perché?
Non è stato facile: nel corso della sua vita mio padre ha raccolto una marea di documenti. La maggior parte sono anche consultabili all’archivio della Fondazione Sturzo. Parliamo di pile di documenti che, se messi uno sull’altro, raggiungono circa i 600 metri di altezza. E poi c’erano i diari, che teneva per sé. In una lettera che ci fece trovare dopo la sua morte scriveva che avremmo dovuto buttarli perché probabilmente non avremmo capito alcuni passaggi e, forse, non avremmo capito neanche per la sua scrittura. E in effetti, le dirò, non aveva tutti i torti (ride).
E poi cos’è successo?
In una delle ultime lettere che ci aveva lasciato sempre postume, invece, ci diceva che lasciava i suoi diari a noi figli e che avremmo potuto farne ciò che ritenevamo più giusto. Anche pubblicare «purché – scriveva precisamente – non noccia a chicchessia». E devo dire che abbiamo tolto pochissimo dagli scritti originari.
La cosa curiosa è che questo libro racconta anche e soprattutto l’Andreotti incredibilmente senza incarichi politici…
È forse l’aspetto più interessante: ricostruiamo tramite le sue agende e i suoi diari il periodo che va dal 1979 al 1983, esattamente fino a quando non torna a Palazzo Chigi per quello che sarebbe stato l’Andreotti VI. Eppure proprio in quei quattro anni mi padre ha incontrato una marea di persone, di ogni tipo: politici, religiosi, personaggi della cultura e dello spettacolo, industriali come Agnelli. Chiunque veniva a casa anche solo per chiedere un consiglio a mio padre.
In effetti nel corso del libro ci sono passaggi molto interessanti su tanti personaggi politici del passato, ma si ha sempre l’impressione ci fosse stima reciproca.
Assolutamente sì. Nel diario ci sono passaggi piccatissimi su Amintore Fanfani con cui si sa che non correva buon sangue. Lo stesso anche per quanto riguarda Marco Pannella o Giancarlo Pajetta: soprattutto con quest’ultimo si stuzzicavano spesso, ma alla fine c’era sempre profonda stima tanto che a volte cenavano assieme.
In effetti alcune cene sono appuntate anche nei diari. Ma tra questi personaggi c’era qualcuno a cui suo padre era legato particolarmente?
Guardi, tra i politici forse Franco Evangelisti che è stato a lungo il suo vice, la sua ombra direi. Però mio padre aveva vera stima soprattutto verso personaggi come Paolo VI, che conosceva come Giovanni Battista Montini sin dai tempi in cui lui era al Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) e il futuro papa nella segreteria di Stato del Vaticano. E poi era molto legato anche a Madre Teresa di Calcutta e a Giovanni Paolo II, che gli sono stati accanto anche in uno dei periodi più neri nella vita di mio padre.
Quale?
Quando subì il processo per rapporti con Cosa Nostra. Dopo quel processo per due anni mio padre era come morto: passava il tempo sul divano, non si alzava, restava lì e prendeva farmaci.
E dopo?
Dopo ha reagito. Come faceva sempre nel corso della sua vita, ha cominciato a pensare che quello che era successo, nel bene o nel male, doveva capitare, faceva parte del destino. Ed è tornato a guardare avanti, anche grazie all’aiuto di noi familiari e di quei personaggi che le dicevo che gli hanno dimostrato profonda vicinanza.
Se suo padre fosse vivo, cosa penserebbe della politica attuale?
Guardi, è un modo completamente diverso di fare politica. Non credo avrebbe avuto in simpatia il modo di intendere la politica di oggi in generale, e in particolare del Movimento cinque stelle e di Salvini.
Perché?
Mio padre non tollerava due cose su tutto: l’impreparazione e la violenza verbale. Per mio lui era impossibile avviarsi all’attività politica dall’oggi al domani. Occorreva formarsi, frequentare scuole, cominciare dal livello locale e poi progredire. Tenga conto che quando era ministro passava notti intere a studiare dossier: doveva essere lui, prima dei suoi assistenti, ad essere padrone fino in fondo dei temi da trattare. E poi, come detto, odiava i toni accesi che oggi vediamo spesso. Con noi figli si arrabbiava anche solo se dicevamo “scemo”, pensi un po’. E poi c’è anche un’altra cosa che mai avrebbe tollerato.
Cosa?
Per lui il cuore dello Stato era il Parlamento. Mi creda: vederlo esautorato del suo potere come accade oggi, probabilmente sarebbe stata in assoluto la cosa che gli avrebbe fatto più male.
Suo padre ha anche vissuto la fase costituente, la nascita della democrazia. Anni fa disse: «Un punto fermo è quello della non opportuna modificabilità della Costituzione». Cosa avrebbe pensato del referendum sul taglio dei parlamentari?
Per mio padre la nostra era la Costituzione più bella del mondo. E mi creda: lo pensava davvero, non era solo retorica. Questo però non voleva dire che non si potesse modificare.
In effetti c’è un passaggio curioso e simpatico nel libro, che sembra scritto oggi. 19 dicembre 1986: «Si discute del numero dei parlamentari. Sono troppi? Quale è il riferimento con gli altri Paesi, eccetera. Fa impressione in effetti il rilievo che lo stesso lavoro è compiuto a Palazzo Madama da 323 persone e a Montecitorio da 630. Ad un capo di Stato che domandava quante persone lavorassero in Vaticano Giovanni XXIII rispose “la metà”».
Al di là della solita sottile ironia, io credo che mio padre sarebbe stato d’accordo a modificare la Costituzione davanti ad un progetto compiuto, serio e strutturato. Quanto sta accadendo ora gli sarebbe sembrato solo un inutile spot per avere l’applauso delle persone.
D’altronde questo non è più il tempo della Prima Repubblica, ma del populismo…
I tempi sono cambiati. E mio padre l’avevo capito già con la fine della Dc e del Pci. È un modo profondamente diverso di fare politica. Magari, chissà, se fosse nato oggi mio padre sarebbe stato come Salvini (attimo di pausa, ndr). Ma magari no.