«Kol od balevav penima/ Nefesh Yehudi homiya,/ Ulfa’atei mizrach kadima/ Ayin l’Tziyon tzofiya»… Pare che in ospedale quando ha sentito arrivare la fine Arrigo Levi abbia intonato l’inno israeliano. Quella Hatikvà che appunto prima di sfidare la morte in battaglia aveva dovuto già cantare da giovane, quando aveva combattuto per l’indipendenza di Israele, e la cui musica, attraverso la Moldava di Bedřich Smetana, deriva in effetti da un’antica melodia della sua Emilia. Ha poi aggiunto una filastrocca modenese della sua infanzia, ed ha chiesto di tornare a morire nella sua casa romana.
L’uomo che ha definito il giornalismo «il mestiere di capire» era nato il 17 luglio del 1926 a Modena, da una famiglia ebraica che era radicata in profondità nella storia della ex-capitale del ducato estense. Donato Donati, avo di sua madre Ida, era un mercante e banchiere askenazita che da Bolzano era arrivato a Finale Emilia nel luglio del 1600 «coi suoi servitori ed agenti e con vari cavalli», ed aveva portato negli Stati estensi il grano saraceno in occasione della grave carestia del 1621, contribuendo a salvare migliaia di vite. Pio Donato, zio materno, era un deputato socialista che il fascismo aveva costretto all’esilio in Belgio, dove era morto l’anno dopo la nascita di Arrigo. Enzo Levi, il padre, era l’avvocato che aveva redatto l’accordo fondativo della Scuderia Ferrari.
Storia e benemerenze, però, non avevano salvato i Levi dalle leggi razziali. Così, nel 1942 erano emigrati in Argentina. E lì, a 17 anni, Arrigo Levi iniziò a fare il giornalista in Italia Libera!, giornale antifascista della comunità italiana di Buenos Aires. Nel 2013 Aragno nella sua collana “Classici del giornalismo” pubblicò una antologia di articoli di Levi che inizia appunto con uno scritto lì apparso il 17 maggio del 1944. «Collo sguardo rivolto alla patria». Proprio nei 50 anni da quell’articolo, il 17 maggio del 1994, Arrigo Levi avrebbe scritto sul Corriere della Sera l’altro articolo in cui avrebbe appunto teorizzato «il mestiere di capire».
In Argentina era però intanto andato al potere il filo-fascista Perón. Iscritto alla facoltà di Filosofia, Arrigo fu arrestato per qualche giorno assieme a 5mila studenti antiperonisti, prima di tornare in Italia in tempo per permettere al padre di votare il 2 giugno del 1946. In Italia riprese gli studi, fino alla laurea in Filosofia a Bologna. Ma continuò anche a fare il giornalista, con Unità Democratica di Guglielmo Zucconi e con Critica Sociale di Ugo Guido Mondolfo.
Nel 1948 andò in Palestina a combattere come volontario nella guerra di indipendenza israeliana: seconda compagnia del Genio della Brigata del Negev. «Le uniformi, in verità, non le avevamo avute da molto tempo, per quasi tutta la guerra ognuno era rimasto vestito così come si era presentato al momento dell’arruolamento», ricorderà 64 anni dopo.
Dal fronte manderà comunque corrispondenze: per Libertà di Piacenza, per la Gazzetta di Modena pure diretta da Zuccni e sempre per Critica Sociale. Merita di essere ricordato in quella antologia di Aragno un articolo dal titolo biblico uscito su La Gazzetta di Modena del 7 agosto 1948: «E il Signore indurì il cuore… degli inglesi e degli arabi».
Ormai lanciato, Arrigo va poi a lavorare alla Bbc, presso il programma Radio Londra. Quando nel 1982 lo chiameranno a commentare la guerra delle Falkland-Malvinas ricorderà sempre di avere doveri di riconoscenza nei confronti di entrambi i Paesi in conflitto. “Un Paese non basta” si intitola un suo libro del 2009 in cui esplora tutti i suoi debiti con Italia, Israele, Argentina, Inghilterra.
Corrispondente della Gazzetta del Popolo, nel 1953 entra nell’orbita del Corriere della Sera scrivendo da Roma per il Corriere di Informazione, che ne era la edizione pomeridiana. E per il Corriere della Sera va poi a Mosca nel 1960, per poi diventare due anni dopo corrispondente del Giorno sempre dalla capitale sovietica.
Ma il grande pubblico conosce il suo stile garbato e dettagliato nel 1966, quando passa al Telegiornale. Ci sta in realtà solo due anni, ma la sua è una novità epocale: primo giornalista professionista a leggere le notizie, in un ruolo fino ad allora svolto a speaker professionisti. Forse anche per l’esperienza fatta alla Bbc l’evoluzione dello strumento tv gli interessava particolarmente, e al 1969 risale ad esempio un suo libro intitolato “La televisione all’italiana”.
Diventato ormai una star del giornalismo nazionale, tra 1969 e 1973 va alla Stampa come inviato, per poi diventarne tra 1973 e 1978 direttore. In un periodo particolarmente drammatico, visto che anche Torino è sotto il fuoco delle Brigate Rosse.
Carlo Casalegno, suo vicedirettore, è il primo giornalista italiano a essere ucciso dai terroristi nel novembre del 1977. «I cinque anni e mezzo trascorsi a Torino sono stati i più intensi della mia carriera», dirà nel 1997 durante una lectio magistralis al ricevimento del Premio Casalegno. «Anni duri e drammatici, segnati dal terrorismo e dalla morte di amici carissimi».
Nel 1979, dopo aver lasciato la direzione della Stampa, Levi torna in rapporti con il mondo giornalistico anglo-sassone, come curatore della rubrica dei problemi internazionali del Times. Ci sta per quattro anni, durante i quali ha il tempo per tornare in tv. Per la Rai crea in particolare nel 1981 Tam Tam, e poi Punto sette e Punto sette, una vita. Per Canale 5 tra 1987 e 1988 fa Tivù Tivù. Di nuovo per la Rai compare nel 1993 in I giorni dell’infanzia, nel 1995 in Emozioni Tv, nel 1997 in Gli archivi del Cremlino, nel 1999 in C’era una volta la Russia.
La Russia è uno dei suoi temi preferiti, come la storia del comunismo più in generale. A lui, raccontò, era capitato anche di essere depositario sia della prima dichiarazione pubblica con cui Kruscev riammise la Jugoslavia nel campo socialista; sia di una inopinata pacca sul sedere da parte di quello statista invero molto poco convenzionale. Tra i suoi 24 libri ve n’è uno del 1965, “Potere in Russia”, uno del 1969, “Il comunismo da Budapest a Praga”, uno del 1971 sulla lunga marcia verso il potere del Pci , uno del 1990 che si intitola “Tra Est e Ovest”, e uno del 1999 sulla Russia del Novecento.
Ma come ex-combattente della guerra di indipendenza israeliana in particolare e ebreo in generale, “fratello maggiore” di Giovanni Paolo II diceva spesso scherzando, lo interessavano anche il Medio Oriente e il dialogo tra e fedi, e aveva in effetti studiato anche Teologia a Londra. Nel 1996 pubblicò ad esempio un libro su Rabin e uno intitolato Le due fedi.
Nel 1998 un Rapporto sul Medio Oriente. Nel 1999 partecipò alla raccolta “Dialoghi di fine millennio” con Andrea Riccardi, Eugenio Scalfari e Carlo Maria Martini. Del 2000 a un altro volume collettivo intitolato “Dialoghi sulla fede”, con Vincenzo Paglia e Andrea Riccardi.
«Non credo in Dio, ma nella storia dell’idea di Dio», spiegava. Ma aggiungeva: «Ciò che più importa è l’essere disponibili a riconoscere il seme di verità che si esprime anche nella fede altrui, e l’essere disposti a riesaminare con animo aperto le proprie convinzioni e a rileggere criticamente anche la storia passata dell’istituzione o della fede in cui ci si riconosce».
L’antologia della Aragno confrontava l’articolo scritto dal combattente sionista nel 1948 con un articolo a favore della nascita di uno Stato palestinese uscito sul Corriere della Sera del 20 dicembre 2012 e con uno «Shalom Arafat» uscito su Sette l’8 dicembre 1994 in occasione del conferimento del Nobel per la Pace al leader dell’Olp assieme a Peres e Rabin.
All’esperienza in Argentina è poi legato “Un’America latina. Memorie e ritorni” del 2004. Sull’antologia di Aragno al 25 ottobre 1970 risale un’intervista per La Stampa con Salvador Allende appena insediato.
Ma evitando una possibile deformazione da specialista di politica internazionale non trascurò mai l’analisi della realtà italiana. Ancora, nell’antologia di Aragno si può leggere un pezzo per la Stampa datato 17 febbraio 1979 su «Kowalowski e la democrazia scomoda». in cui sembra quasi prevedere i tempi del grillismo con 34 anni di anticipo.
Sempre fra i suoi libri possiamo ricordare nel 1979 “Un’idea dell’Italia”; nel 1983 “Una Ipotesi sull’Italia, undici diagnosi per una crisi” ; nel 1984 una “Intervista sul capitalismo moderno” a Giovanni Agnelli e un libro che si intitola “La Dc nell’Italia che cambia” ; nel 1986 pubblica invece un’intervista a Ciriaco De Mita ; nel 1988 un altro saggio, “Noi: gli italiani” ; e infine nel 2010 un’intervista a Carlo Azeglio Ciampi.
Dall’antologia della Aragno possiamo ricordare una sorta di manifesto agli italiani con l’eloquente titolo di “Il vizio nazionale dell’autoflagellazione”. Ancora utile pure il suo “Viaggio tra gli economisti” del 1972. Vista l’età cui è arrivato e la vita intellettualmente intensa che ha vissuto, forse sarebbe interessante dare anche un’occhiata a un suo libro del 1998: “La vecchiaia può attendere, ovvero L’arte di restare giovani”.
Da ricordare pure che nel 1987 Arrigo Levi è stato insignito del Premio Trento per il giornalismo, nel 1995 del Premio Luigi Barzini come miglior corrispondente dell’anno, nel 2001 del Premio Ischia Internazionale di Giornalismo. Mostro sacro del giornalismo, ma forse per stile personale meno divisivo di altri grandi vecchi come Montanelli, Biagi, Bocca o Scalfari, l’istintivamente istituzionale Arrigo Levi conclude il suo percorso con il ruolo appunto istituzionale di consigliere per le relazioni esterne del Quirinale per ben 15 anni, dal 1998 al 2013: prima con Carlo Azeglio Ciampi; poi con Giorgio Napolitano.