È in corso un allarme sociale da non sottovalutare: l’indiscriminata diffusione della burrata. Questo simpatico formaggio, originario di Andria in Puglia, che sta alla mozzarella come il mulo sta all’asino, accompagna qualsiasi tipo di pietanza in qualsiasi ristorante, dagli stellati alle trattorie, ai baracchini sul mare. Per antipasto ti servono i crostini con burrata e acciughe, meglio se del Mar Cantabrico che fanno tanto profondo nord tipo romanzo di Iperborea; tra i primi assistiamo al diffondersi della tagliatella bianca con gamberi rossi crudi e burrata: pesce o carne vengono presentati, più che conditi, con salse bianche di burrata, che sta bene anche con l’insalata, per non parlare della pizza. Chiedere una margherita normale sa di taccagneria, ci vuole almeno con mozzarella di bufala, ma la burrata anche qui fa tendenza, aprendo un dibattito teorico: la si mette dopo la cottura (come il prosciutto crudo) insieme a pomodorini pachino o la si cuoce proprio come la mozzarella? Però a quello punto il gusto è indistinguibile e il risultato modesto, troppo acquoso.
La burrata, insomma, si inserisce di diritto nella lista di alimenti che segnano determinate epoche, proprio come certi tormentoni estivi o alcuni oggetti “mai più senza” destinati a non durare troppo nonostante le aspettative e le robuste azioni di marketing. Prima degli anni ’80 non esisteva la rucola, nessuno tranne le capre si sarebbe sognato di mangiare foglie dal sapore aspro e artificioso, eppure impazzava nella Milano da bere sopra la bresaola per le veloci pause pranzo, oppure a decorare altri piatti must nell’era del riflusso, il cocktail di gamberi e la tagliata. Negli stessi anni il primo d’ordinanza era la pennetta salmone e vodka, oppure l’indigeribile panna e caviale, e si terminava con un sorbetto, memorabile quello lampioni e vodka servito come specialità da La Ranarita, il ristorante in Brera frequentato dallo stato maggiore del Partito Socialista.
Con la globalizzazione la cucina italiana – la migliore del mondo, non ammetto repliche, non mangio nulla che non sia italiano – si è necessariamente contaminata con cibi provenienti da altre latitudini e chi non ordinava paella valenciana, cous cous marocchino, soupe d’oignon provenzale, fish and chips britannici fino ai terribili kebap era poco curioso e troppo prevenuto. Dagli anni ’90 in qua è stato tutto un fusion, una contaminazione, una babele di odori (odoracci), profumi e sapori. Meno male che a un certo punto, dal mio Piemonte, è partita la riscossa culturale del chilometro zero e della filiera corta. È vero che le Langhe sono un paradiso enogastronomico in terra, ma mi chiedo se davvero tutta la salsiccia che si mangia cruda sia davvero di Bra o non più probabilmente un brand come il pistacchio di Bronte. Ma è possibile che un comune di 18mila abitanti ne riesca a produrre così tanto da fornire gelaterie e pasticcerie di tutto il mondo?
Non importa, mangiare italiano è un dovere, anche per contrastare la pericolosa avanzata del sushi, insulso pesce crudo surgelato condito con qualsiasi porcheria, in pratica il McDonald del terzo millennio. Dall’estremo oriente arriva un altro nemico dei palati, lo zenzero, un brutto tubero cui si attribuiscono proprietà taumaturgiche degne di Padre Pio, che ti infilano nelle tisane, nei frullati (meglio dire centrifugati come i fanatici dell’healty), persino nei dolci anche se fa veramente schifo e ha un sapore talmente forte da annullare il resto.
Mode destinate a svanire presto e a essere sostituite da altro. La burrata, almeno, è italiana, ma un buon conoscitore di formaggi non la cambierebbe mai con gorgonzola, toma, pecorino, fontina. Però nell’estate 2020 fa figo ordinarla, così come il Gewurztraminer, troppo fruttato, il Ruché, tra i rossi piemontesi il più artificioso, il Negramaro, liquoroso e inadatto per pasteggiare. Nelle provincie di Caserta e Salerno, che gareggiano da decenni nella produzione di stupefacente mozzarella di bufala, ti guardano storto se chiedi la burrata, vieni identificato come uno che capisce poco e hanno ragione loro: nella cucina la tradizione ha sempre la meglio.