La decisione di autorizzare il processo a Matteo Salvini per il caso Open Arms, presa giovedì dal Parlamento, ha radicalizzato il confronto politico, suscitando reazioni a catena, e spesso scomposte, con cui è probabile che dovremo fare i conti a lungo: dall’estremismo rabbioso dei compagni di partito e di coalizione – con la sobria eccezione di Forza Italia – all’estrema spudoratezza degli ex alleati grillini, i quali avevano condiviso e difeso l’operato di Salvini fino all’altro ieri (indimenticabile l’ex ministro Danilo Toninelli che ancora qualche mese fa rivendicava di essere stato lui a chiudere i porti, perché quella era competenza sua, invitando il leader leghista a smetterla di rubargli i meriti).
Nessuna reazione è però più stupefacente della violenta invettiva di Giorgia Meloni contro «vigliacchi e traditori», ai quali non ha mancato di ricordare, in un improvviso testacoda ideologico, che «quando saltano le regole dello stato di diritto, nessuno è più al sicuro».
Già è piuttosto spiazzante ascoltare queste parole a pochi giorni dalla dura battaglia condotta in Europa da Viktor Orbán, con il pieno appoggio di Meloni e Salvini, contro il tentativo di vincolare le risorse del Recovery fund al rispetto dello stato di diritto. Se tuttavia si trattasse soltanto del solito riflesso condizionato dei sovranisti italiani che invocano per sé il rispetto di quelle regole che vorrebbero cancellare per tutti gli altri, ci sarebbe in fondo poco da sorprendersi.
Colpisce però che lo stato di diritto sia invocato con tanta foga proprio a proposito del caso Open Arms, cioè nel momento stesso in cui si rivendica la facoltà, per un esponente del governo, di violare i più elementari diritti di altre persone in nome del mandato elettorale, che è la più esatta negazione del significato stesso dell’espressione «stato di diritto» che sia possibile formulare.
Dice Giorgia Meloni che «il processo a un ministro per aver fatto quello che il suo mandato gli imponeva, ovvero difendere la Nazione e i suoi confini e rispettare l’indicazione data dagli elettori con il voto, è un precedente spaventoso nella democrazia Italiana».
Ma il fatto davvero spaventoso, che purtroppo in Italia qualche precedente storico ce l’ha, è che autorevoli leader politici invochino la facoltà di cancellare i diritti di una qualsivoglia categoria di persone (oggi i migranti, domani magari pure chi si sognasse di difenderli, cioè gli avversari politici, come già accade in Ungheria) in nome dell’esigenza di difendere la Nazione e i suoi confini da presunti nemici.
Ancora più preoccupante è che si consideri il voto degli elettori superiore al diritto, e di conseguenza si giudichi «scandaloso» che un ministro possa essere processato per quello che ha fatto in nome del suo programma politico. Ma se chiunque andasse al governo dovesse essere considerato al di sopra della legge, allora sì che nessuno potrebbe più sentirsi al sicuro.
Chiediamoci cosa avrebbero detto Meloni o Salvini se fosse successo a loro – o a un loro collega, amico, nipotino o cugino di quinto grado – di essere soccorsi in mare da una nave nelle vicinanze di un porto americano, giapponese o australiano, e il locale ministro degli Interni li avesse costretti a restare lì sopra per diciannove giorni, insieme ad altre centocinquanta persone, all’addiaccio, con due soli bagni per tutti. Diciannove giorni prigionieri in quelle condizioni.
Non c’è dubbio che per loro, come per chiunque di noi, in qualunque paese del mondo fosse accaduto, sarebbe stato inaccettabile. Ma nell’Italia di oggi c’è una categoria di persone, i migranti, per le quali l’inaccettabile sembra diventare subito accettabile. Questo curioso fenomeno, purtroppo anch’esso non privo di precedenti storici, è esattamente il modo in cui si preannuncia la fine dello stato di diritto.