L’Unione di domaniIl successo politico del Recovery fund deve dare slancio alla costruzione di una vera democrazia europea

Il vertice dello scorso 21 luglio non è esente da difetti: ci sono tagli alle sovvenzioni di alcuni programmi, e non ci sono condizioni legate al rispetto dei diritti e delle libertà individuali. Ma è una base di partenza per riformare i sistemi di auto-governo di Bruxelles, dando più potere alle istituzioni che rappresentano gli interessi dei cittadini, soprattutto al Parlamento

GERARD CERLES / AFP

I giorni di accese discussioni del Consiglio europeo hanno prodotto un accordo per sostenere la ripresa economica che dà priorità a Spagna e Italia. Gli effetti del covid-19 sono asimmetrici e in queste nazioni la ripresa si prospetta più lenta, anche a causa di una forte dipendenza dal turismo.

Nel caso dell’Italia la situazione è resa ancor più complicata da un debito pubblico insostenibile che dovrebbe arrivare al 160 per cento del Pil entro la fine dell’anno.

Zelanti nell’indicare le mancanze di altri membri in ambito economico, ma restii a dare una mano concreta, la reazione di alcuni Paesi ha generato una crisi di sfiducia nei confronti dell’Unione europea che si è montata sugli alti e bassi dei mesi scorsi. Per questo l’accordo raggiunto il 21 luglio è un autentico successo e un passo decisivo nel processo di integrazione europea. Il fatto che sia avvenuto in così breve tempo ha dell’incredibile.

Le trattative hanno preso le mosse dal piano da 500 miliardi di euro in sovvenzioni, proposto da Merkel e Macron, potenziato con 250 miliardi in prestiti proposti dalla Commissione. Durante le trattative le sovvenzioni sono state ridotte a 390 miliardi, mentre i prestiti sono saliti. La cifra finale non cambia: 750 miliardi per far fronte alla crisi nei prossimi 3 anni.

I 390 miliardi corrispondono a investimenti pari all’1 per cento della ricchezza europea all’anno: non un cambio radicale, ma una cifra con un impatto macroeconomico rilevante. L’Italia, uno dei maggiori beneficiari, riceverà attorno agli 80 miliardi, pari a circa il 5 per cento del Pil.

Le sovvenzioni saranno accessibili senza grosse condizioni come, ad esempio, riforme strutturali obbligatorie, e senza che sia possibile bloccarne l’erogazione tramite i veti di altri Paesi. Il superamento di questa richiesta, inizialmente avanzata dal primo ministro dei Paesi Bassi, è un segnale incoraggiante.

Per ottenere i fondi si dovranno presentare dei piani di spesa nazionali, che verranno valutati dalla Commissione e approvati dal Consiglio a maggioranza qualificata, cioè da un minimo di 15 paesi che rappresentino almeno il 65 per cento della popolazione europea. Questo significa che le raccomandazioni della Commissione europea (le Country specific recommendations) diventeranno il riferimento per la valutazione dei piani e l’attenzione sarà su misure volte a migliorare il potenziale di crescita, l’occupazione e la resilienza economica e sociale.

Ancora più importante è il significato politico di questo accordo. L’Europa ha dimostrato di esserci, è tornata protagonista del futuro dei cittadini, evitando discussioni interminabili come quelle che bloccarono le riforme durante la crisi del 2011-12.

Le grosse novità che riguardano la Commissione sono il fatto che sarà quest’ultima a indebitarsi direttamente per finanziare il fondo, che ne avrà la gestione e che avrà accesso a alcune risorse proprie sotto forma di tasse su servizi digitali, plastica e carbone.

Un successo su tutta la linea quindi? Non proprio.

I tagli alle sovvenzioni hanno colpito per lo più programmi gestiti a livello centrale, quali Horizon (ricerca di base: tagliata da 13,5 a soli 5 miliardi), InvestEU (salute e ambiente: da 30,3 a 5,6), Just Transition Fund (transizione energetica: da 30 a 10), EU4Health (salute: da 7,7 a 0) e altri.

Si è privilegiata una visione che mette in primo piano gli Stati e si sono tagliati programmi che avrebbero potuto generare beni pubblici europei.

Ancora: Polonia e Ungheria hanno fatto fronte comune contro ogni condizionalità che legasse l’erogazione dei fondi al rispetto dei diritti e delle libertà individuali, sempre più sotto pressione in questi due paesi. Tutto ciò che si è ottenuto è una singola frase con cui il Consiglio europeo «sottolinea l’importanza del rispetto dello stato di diritto», senza però porre veri vincoli.

Il Parlamento non ha recepito bene questi compromessi, votando a larga maggioranza (465 a favore, 150 contrari) una risoluzione che ne evidenzia le criticità. La risoluzione sottolinea che l’accordo è positivo nel breve, ma che i tagli sul lungo periodo sono inaccettabili, come pure l’assenza di collegamento tra finanziamenti e rispetto dello stato di diritto.

Viene inoltre identificata come grave carenza il fatto che proprio il Parlamento, organismo rappresentativo dei cittadini, non abbia alcun controllo sull’approvazione degli investimenti. Da ultimo, viene sottolineata la necessità di trovare nuove e ulteriori forme di entrata per la Commissione, allo scopo di evitare che il debito ricada sui cittadini.

Se non sarà fatta una revisione significativa durante le negoziazioni, il Parlamento promette di non votare il budget, il Multiannual financial framework. Si tratta di una posizione del tutto condivisibile e di un’evoluzione positiva.

Il Parlamento europeo è un’istituzione che ha acquistato nel tempo una maggiore centralità nel dibattito politico, ma ancora non ha una forza comparabile a quella dei parlamenti nazionali. Questa presa di posizione netta, è un passo nella direzione di una maggiore assertività e una mossa che dimostra, ancora una volta, come la crisi generata dal covid stia facendo emergere le lotte istituzionali che determineranno il tipo di Europa in cui vivremo domani.

Se il Parlamento non dovesse riuscire nella sua opera di rimettere al centro gli obiettivi di lungo termine, infatti, gli effetti della poca lungimiranza dei Paesi che si autodefiniscono “frugali”non si vedranno nell’immediato. Al contrario, i leader politici potranno cantare vittoria in patria e, magari, essere rieletti proprio mentre renderanno la vita delle future generazioni ancora più precaria.

Insomma, la guerra è ancora aperta ma la battaglia per ora è vinta. L’Europa ha infatti rotto ben due tabù: l’emissione comune di debito in quantità significativa, e i trasferimenti fiscali espliciti tra paesi: un passo decisivo verso un’unione politica come contraltare a quella monetaria rappresentata dalla Bce.

Passata la crisi immediata, sarà urgente sfruttare lo slancio di questi giorni per riformare i sistemi di auto-governo dell’Unione, dando più potere alle istituzioni che rappresentano meglio gli interessi complessivi dei cittadini, e dunque al Parlamento in special modo.

Se guardiamo alla storia, però, la prospettiva risulta positiva: quasi mai i poteri sono stati concessi ai parlamenti. Viceversa questi ultimi, armati della legittimità garantita dalle elezioni, si sono conquistati il ruolo centrale nelle decisioni riguardanti la nostra società.

Il Parlamento europeo sembra stia percorrendo questo stesso cammino, e diventa per noi cittadini più che mai importante sostenere tale sforzo per costruire insieme una vera democrazia europea.

Andi Shehu è co-presidente di Volt Italia*

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