A quanto risulta dai verbali appena resi pubblici, in questi mesi il Comitato tecnico scientifico non è stato chiamato a prendere decisioni che Giuseppe Conte non voleva assumere in prima persona, ma ad assumersi la responsabilità delle decisioni prese da Conte. O quanto meno a fargli da schermo, permettendo al presidente del Consiglio di dare a intendere agli italiani, nelle sue non rare conferenze stampa, tra una citazione del professor Brusaferro e l’altra, che c’era poco da scegliere, che a indicare la strada era direttamente la stessa voce della scienza. E che gli vuoi replicare, a un vocione simile?
Tralasciamo l’ironia del destino che ha portato il capo del governo espresso dal primo partito no-vax italiano a divenire il più fermo sostenitore del primato della scienza. Di più, proprio della scienza ufficiale, del fior fiore dell’élite medico-accademica. Meglio tardi che mai.
Il problema è che il parere dei tecnici o lo si segue sempre, oppure, se ogni tanto sì e ogni tanto no – com’è non solo legittimo, ma persino doveroso da parte di un governo democratico – ebbene, bisogna allora accettare di dare conto democraticamente e pubblicamente delle scelte compiute, soprattutto quando da tali scelte sono discese conseguenze di così ampia e tragica portata.
Non si può dire che le spiegazioni date finora siano state particolarmente approfondite né convincenti, sia per quanto riguarda la scelta di non chiudere subito Alzano e Nembro (nonostante, come ora sappiamo, fosse stato proprio il comitato tecnico-scientifico a suggerirlo immediatamente) sia per quanto riguarda la scelta di chiudere poco dopo l’intero paese (nonostante, come ora sappiamo, i tecnici proponessero una risposta differenziata secondo la diffusione dell’epidemia nelle diverse zone).
È possibile ipotizzare che di fronte alla necessità di chiudere le regioni da cui proviene l’80 per cento del Pil, il governo abbia ritenuto politicamente più semplice applicare la stessa misura all’intero paese, forse anche per non prestare il fianco all’accusa di prendersela con le Regioni amministrate dall’opposizione, o perché convinto di dover trasmettere un segnale più forte all’intera popolazione, o per mille altri motivi.
Comunque la si pensi sul merito di quelle scelte, e quali che siano le conseguenze giudiziarie, è però molto difficile immaginare che tutto questo non abbia un immediato effetto politico. A torto o a ragione, molti di coloro che hanno perso il lavoro, la propria azienda, il proprio giro d’affari a causa del lockdown, in zone dove al momento del lockdown si registravano zero contagi (cioè in buona parte d’Italia), non saranno felici di sapere che gli stessi esperti non ritenevano necessario un simile sacrificio.
Fino a oggi il modo in cui il governo ha affrontato l’epidemia è stato il suo principale punto di forza, nei sondaggi e non solo, come dimostrano i riconoscimenti venuti anche dalla stampa internazionale. Certo, è possibile che si tratti sempre di quel curioso fenomeno di asincronia globale che ha visto variare più volte i giudizi su primi e ultimi della classe, di fronte alla terribile prova della pandemia. Noi stessi siamo stati a lungo la pecora nera, prima di diventare un modello, e i segnali di ripartenza dei contagi minacciano seriamente di riaprire la corsa.
In ogni caso, le notizie di questi giorni pongono almeno due problemi. Il primo riguarda il governo Conte: perché, obiettivamente, se il giudizio dell’opinione pubblica sul modo in cui ha affrontato l’epidemia fino ad ora dovesse cambiare, e volgere al brutto, che cosa gli resterebbe?
Il secondo problema riguarda tutti noi: perché, ci piaccia o no, con i suoi modi, i suoi tempi e i suoi errori, il governo Conte è riuscito a frenare la curva dei contagi e a gestire la situazione in modo piuttosto ordinato. Se il suo capitale di credibilità e legittimazione dovesse improvvisamente esaurirsi, e giusto nel momento in cui la curva dei contagi mostra segni di ripresa, quando cioè occorrerà verosimilmente maggiore disciplina, autocontrollo e disponibilità al sacrificio, come faremo?