Quando lo scorso maggio l’Enel ha annunciato l’abbandono del carbone nella centrale elettrica Federico II di Brindisi le reazioni dell’opinione pubblica sono state principalmente due: va bene rinunciare a un combustibile altamente inquinante – la fonte di energia con le più alte emissioni di gas serra – in una delle centrali più inquinanti d’Italia; va bene il gas fossile ma meglio ancora fonti più pulite.
La minor necessità di energia dovuta al lockdown è stata una buona occasione per trasformare impianti come quello di Brindisi in centrali più green, come accaduto da più parti in tutto il mondo. Ma soprattutto la crisi ha accelerato una trasformazione già in atto, proprio come in altri settori.
Lo confermano i dati dell’Autorità di regolazione per l’energia e l’ambiente (Arera) relativi al 2019: «C’è stato un crollo dell’uso del carbone del 46,9 per cento e una tenuta delle rinnovabili». Il Wwf spiega che «le centrali a carbone in Italia producono meno del 10 per cento del consumo interno lordo di energia elettrica, ma bisognerebbe eliminarlo il prima possibile dal momento che rappresenta una minaccia per il clima e per la salute di persone, organismi viventi ed ecosistemi». In più l’Italia non è un paese produttore di questo combustibile fossile, ma lo acquista da Stati Uniti, Canada, Cina, Venezuela, Russia, Indonesia, Australia e Colombia.
Per questo Enel punta da tempo a una transizione verso le rinnovabili, come espresso anche nel Piano strategico 2020-2022. Dalle informazioni fornite dall’azienda si stima in «14,4 miliardi di euro l’investimento in decarbonizzazione dei prossimi tre anni per tutto il Gruppo Enel, con il duplice obiettivo di legare il 60 per cento della produzione totale alle fonti rinnovabili e ridurre la capacità e la produzione di energia da carbone di oltre il 40 per cento rispetto al 2019».
Per raggiungere questi obiettivi sarà necessario rimodulare i processi e i modelli operativi, con cambiamenti di ruoli e competenze dei dipendenti. Un percorso non semplice che per il Gruppo Enel significa coinvolgere circa 1.300 persone in tutto il mondo in piani di upskilling e reskilling dei dipendenti, «sostenendo una spesa di circa 400 milioni di euro che non concorrerà al margine operativo lordo e all’Utile netto ordinario del gruppo e, pertanto, non avrà riflessi sulla politica dei dividendi di Enel», come riportato sul Piano strategico triennale.
Il carbone per decenni è stato la fonte di energia più economica, ma oggi anche questo valore è venuto meno: in molti paesi il costo dell’energia proveniente dalle rinnovabili è minore. Lo spiega a Linkiesta Sriya Sundaresan, a capo del team “Power&Utilities” del think tank Carbon Tracker: «Oggi in Italia, così come in altri posti dell’Europa occidentale, costruire impianti per l’energia eolica o solare è più economico che farne uno a carbone, ma è anche più economico che farne funzionare uno già esistente».
Il minor consumo di carbone finora ha portato soprattutto a un maggior utilizzo del gas, cresciuto dell’11,4 per cento nel 2019 rispetto all’anno precedente. Il gas, a sua volta, non è la miglior soluzione possibile: più che altro è una soluzione temporanea in attesa di un passaggio verso fonti più pulite.
Dalla Società nazionale metanodotti (Snam) dicono a Linkiesta che «la tendenza di lungo periodo dell’intero settore è quella di un graduale passaggio all’idrogeno e al biometano. In tempi più brevi, invece, si sta assistendo a quello che in gergo viene definito “coal-to-gas”, uno switch dal carbone al gas che era in atto già prima del 2020, quindi prima della pandemia».
I dati forniti da Snam rivelano che già da marzo 2019 a oggi in Italia i costi dell’energia derivante dal gas sono sempre stati inferiori a quelli del carbone: con un differenziale crescente negli ultimi mesi a causa del lockdown, quindi alla minor produzione di energia elettrica. Ad aprile 2020, infatti, i costi del gas sono diminuiti del 55 per cento rispetto all’anno precedente, mentre quelli del carbone sono calati solo del 26 per cento. Come spiegano da Snam, «il calo del 10,8 per cento nella domanda di gas nel primo semestre di quest’anno, dovuto al lockdown, è comunque inferiore al calo avuto dal carbone. Indice che questo è il momento storico adatto per un passaggio dal carbone al gas».
C’è poi un valore non trascurabile del gas in un mondo sempre più diretto verso un consumo diffuso delle rinnovabili. L dice a Linkiesta Carlos Torres-Diaz, alla guida della divisione “Gas&Power Markets” di Rystad Energy (società indipendente di ricerca energetica): «Anche eolico e solare sono più convenienti del carbone, ma sono intermittenti per natura e hanno bisogno di una fonte di backup. Per questa funzione il gas è migliore del carbone perché più pulito e più flessibile. Questo è il motivo per cui non si spinge ancora per l’utilizzo delle sole rinnovabili».
L’Italia sta lavorando sul suo “phase out” dal carbone. L’obiettivo è abbandonarlo definitivamente nel 2025. O meglio, lo sarebbe. Ma lo scorso febbraio, prima della pandemia, i ministeri di Sviluppo economico e Ambiente hanno inviato alla Commissione europea un “Piano Nazionale integrato per l’energia e il clima” (Pniec) meno ambizioso rispetto alle prime bozze.
Nel documento si legge che l’Italia ha «programmato la graduale cessazione della produzione elettrica con carbone entro il 2025, con un primo significativo step al 2023, compensata, oltre che dalla forte crescita dell’energia rinnovabile, da un piano di interventi infrastrutturali da fare nei prossimi anni».
L’obiettivo, dunque, non è inderogabile, ed è subordinato ai tempi burocratici e tecnici dei nuovi investimenti. Far uscire l’Italia dal carbone entro il 2025 era già un’idea di Carlo Calenda quando era alla guida del ministero dello Sviluppo economico: «Se vogliamo anticipare l’uscita dobbiamo essere sicuri nella produzione di energia elettrica. Per questo il gas sarà l’energia di transizione dal carbone alle fonti meno inquinanti», aveva detto a margine della presentazione del rapporto “GreenItaly 2017”.
Le decisioni ambientali sono sempre subordinate alle priorità della politica, con tutto quel che ne deriva. Non solo in Italia. La settimana scorsa un articolo del Financial Times ha spiegato le difficoltà della Polonia nell’affrancarsi dal carbone.
«All’inizio di giugno – si legge sul quotidiano britannico – il governo polacco ha ordinato la sospensione della produzione di carbone per tre settimane. Eppure, anziché assecondare lo sforzo di proteggere i lavoratori, i leader sindacali hanno inviato una lettera furiosa al governo chiedendo che la decisione fosse annullata».
E poi, ancora, viene raccontata la difficoltà dei funzionari dello stesso governo, che hanno dovuto «negare che avrebbero usato la pandemia come scusa per tagliare i posti di lavoro in un settore in difficoltà, che tra l’altro conta 80mila occupati nel paese».
Lo scontro con i sindacati potrebbe essere l’anteprima di un periodo di lotte in cui si deciderà il futuro di un settore che pesa enormemente sull’economia della nazione, ma contrasta con gli ambiziosi obiettivi climatici di tutta l’Unione europea.
«Per molti paesi, come la Polonia – dice Torres-Diaz – il carbone è ancora indispensabile purtroppo: gran parte del loro sistema energetico si basa su questa materia prima, il che significa anche molti posti di lavoro difficilmente trasformabili nell’immediato».
Muovendo dalla Germania verso Est si incontrano gli Stati membri che ancora fanno un grosso affidamento sul carbone: oltre alla Polonia, ci sono Repubblica Ceca (54 per cento della propria produzione), Bulgaria (43 per cento), e poi a seguire Grecia, Olanda, Slovenia, Romania, tutte comprese fra il 25 e il 43 per cento. Poi c’è la Germania, che basa il 43 per cento della propria produzione energetica – ma è in valore assoluto quella che ne consuma di più – e ha chiuso l’ultima miniera nella Ruhr nel 2018.
Ma anche in questi paesi la crisi potrebbe accelerare gli effetti di un declino che già da tempo sembrava inevitabile.
I dati Eurostat rivelano che negli ultimi trent’anni la produzione di carbone si è ridotta del 77 per cento, passando dalle 270 milioni di tonnellate del 1990 alle 65 milioni del 2019. E per i prossimi trent’anni gli obiettivi in materia ambientale sono altrettanto ambiziosi: l’Unione europea punta a diventare il primo continente a impatto zero sul clima entro il 2050.
Lo scorso aprile l’Austria ha chiuso la sua ultima centrale a carbone, quella di Mellach; la Svezia ha interrotto le operazioni a Hjorthagen, nella parte orientale di Stoccolma, con due anni di anticipo; l’Olanda ha annunciato che avrebbe ridotto del 75 per cento la capacità delle sue centrali termiche.
Anche il Regno Unito è sulla stessa strada: il 9 aprile la rete nazionale britannica ha spento gli ultimi quattro impianti a carbone del paese.
«L’Europa ha una consapevolezza diversa rispetto al resto del mondo. Per questo si pone obiettivi ambiziosi. Non necessariamente li raggiungerà nei termini e nei modi previsti, ma c’è alla base un’idea precisa», dice Torres-Diaz.
Con un po’ di ritardo sembrano avvicinarsi a questa prospettiva anche gli Stati Uniti: un recente rapporto della US Energy Information Administration ha stimato che nel 2019 il paese ha prodotto per la prima volta meno elettricità da carbone – meno del 20 per cento del totale – che da fonti rinnovabili.
In questo momento nel mondo la spinta più grande al consumo di carbone arriva dall’Asia. La sola Cina brucia la metà del carbone mondiale, con un picco previsto per il 2025.
È anche per questo motivo che negli ultimi anni il consumo di carbone non è diminuito a livello globale: nel 2017 era addirittura aumentato, dell’un per cento. «Quando parliamo di Cina e India – dice Sriya Sundaresan di Carbon Tracker – parliamo di realtà molto diverse da quelle europee. Sono società in grande espansione che hanno bisogno di un consumo sempre crescente di energia, e per far questo, al momento non possono fare a meno delle loro centrali a carbone altrimenti non soddisferebbero il loro fabbisogno. Se speriamo in un phase out globale dal carbone potremmo non arrivarci mai».