Finalmente solo, la mia canzone è andata al mare. La mia canzone se n’è andata a fare la bagnante, è andata a guardare i tipi da spiaggia che si fingono Ulissi stremati a riva, e dopo c’è Nausicaa.
Credono di saperlo solo loro ma si vede, abbrancano la sabbia, il mento arenato sul bagnasciuga, una finta d’acqua bevuta e poi espulsa a fontanella, indugiano tra piatte ondine che un poco li scarrocciano, poi si sollevano barcollano, ma poco poco per non dare nell’occhio, il naufragio è interiore come pure la riva raggiunta è interiore, si dirigono all’asciugamano col quale si coprono come fosse fogliame, sì, perché sono arrivati nudi alla sponda, e anche il nudo è interiore ossia è sotto il costume.
Tutto quel che è interiore salva, come no se salva, dalla realtà, altro che storie, altro che storie vere, che fanno crollare, avvilita, la vela. Se invece la riva è scogliosa, fanno i Palinuri, la roccia sfugge alla presa, una volta, due volte, poi, come alla fine di una scena girata, escono dall’acqua con scritto in faccia: buona l’ultima. È la mia clientela: ascoltatori di canti che, epici, in testa gli risuonano.
L’epica lotta dell’epica contro il reale. Sono un po’ epiche le canzoncine estive? Sì, lo sono. Mi dedico, come testo, alla canzone. Lo crederanno, mi crederanno, dedicato a una donna. Ma io dedico ogni testo alla canzone: alla canzone come entità dedico me stesso in carne e ossa ossia testo.
Così che, uniti strettamente, ci pare di udire la musica e un canto, siamo una vignetta sentimentale. “Le formiche al mare e io qua con le cicale…”, ma come è laboriosa la vacanza altrui. Io sto con le cicale, amo il loro frinire da seghetto, come quello degli intarsiatori a Sorrento, le cicale che da sempre lavorano lungo il contorno della piastra del sole per staccarla dal cielo.
Perché? Non lo so, è un’immagine. Forse per intarsiarlo sul coperchio di un baule, che lo apri e c’è la musica dentro. La vita è un carillon, si scarica. Nella descrizione del nostro circondario siamo sempre un po’ strampalati. Diciamo cose del cielo e della terra, che però non stanno né in cielo né in terra. Le parole ci prendono la mano con la quale le scriviamo.
Sto con le cicale, le cantanti, cantanti le nostre seghe. Scrivo in un tempo che non è questo tempo, questo tempo presente e allarmato, questo tempo di ritorni al passato (lo noto, lo sto notando, l’ho notato), quando vivere era vivere perché era nient’altro, niente altro. Poi, dopo, arrivò altro, che era, appunto, niente.
Ma per capire che qualcosa è niente si ha bisogno di un più potente fomite di annientamento. Ma come siamo fatti! Come siamo fatti? Non lo so, la mia era solo una frasetta a effetto, sono un rapsodo. Ritmo, ritmo, dice Rabagliati, anzi, per essere precisi dice “Rimmo, rimmo, rimmo”, che, a ripeterlo e ripeterlo viene fuori “morimmo”.
Significa qualcosa? Non lo so, fatevelo voi il significato. Quel che si scrive non significa niente: è la massima ambizione, per chi scrive ossia per me. Significa qualcosa, più di una cosa, per chi legge e ascolta. Chi scrive alimenta fantasie, visioni, immagini e immaginazioni, apparizioni, arie fritte e dorate questo è il fatto. Insomma, questi ritorni al passato. Io, invece, al passato non torno, lo sono. Cosa stavo dicendo? Ah, sì, “Come mi sento solo” è il titolo della canzoncina, andatela a cercare in mare, è irretita nella rete.
«Ferragosto è un convento di fuoco, io con la città mi fondo», mi fondo, sì, come fusione ma anche come fondazione, così come Romolo si fondò con Roma. Perché un convento? Non lo so, ho le allucinazioni, essere accaldati è un po’ come pregare, si trasuda, si elevano i propri vapori, che vanno a mescolarsi con le invisibili umidità del cielo, quasi spirituali. Lo spirito santo è umido? In amore sì.
Ultimamente mi ha dato spago, tenendomi anche sulla corda, Pietro Citati sull’ultimo Robinson, altro bagnante letterario, recensendo “La mistica cristiana”, un libro meridiano. Mi dà spago incoraggiante e mi tiene sulla corda acrobatica, oscillante e avventata. Questo è Dionigi l’Aeropagita, che egli cita: «La teologia mistica è irrazionale e folle, una sapienza insensata che eccede coloro che la celebrano».
Questo è Citati: «Dunque la mistica è una follia: dunque la mistica è insensatezza, e i maggiori studiosi moderni non fanno che illustrare e rivelare questo terribile fallimento, da cui dipende tutta la profondità e l’intensità della nostra vita spirituale».
Bello, no? È anche bello come i maggiori studiosi moderni si applichino all’analisi delle mie canzoncine. Sarei mistico, io? Può essere, va bene. C’è qualcosa di meglio? Le mie canzoni sono una forma di levitazione, la mia. Ah, come finalmente mi sento solo, e quanto quanto quanto. Intuisco cos’è Dio: è sperimentazione. Mi ritorna la canzone dalle radio a ondate d’onde radio e di mare, e mi rinfresca il cuore.