Primo di due articoli. Il secondo sarà online lunedì mattina.
Ci voleva una pandemia perché in Italia la scuola tornasse al centro del dibattito pubblico. Ci voleva la pandemia perché in Italia tutti si mettessero a parlare di scuola in modo, se possibile, ancora più insensato del solito.
E dire che, tutto sommato, considerate le non altissime aspettative, le cose non si erano messe poi malaccio. Almeno fino al plexiglas e alle “rime buccali”.
Ma andiamo con ordine.
L’anno scolastico 2019/20 ha avuto il suo punto di svolta la sera di domenica 23 febbraio, quando governo ed enti locali decisero la sospensione delle lezioni nelle scuole lombarde, venete e di altre scuole (per esempio, quelle in provincia di Piacenza) a seguito dell’individuazione dei primi focolai di covid-19 a Codogno e Vo’.
Inizialmente, la chiusura venne disposta fino alla domenica successiva. A Milano e dintorni in quella settimana molte scuole avevano già programmato qualche giorno di vacanza in occasione del carnevale, che per il rito ambrosiano si prolunga fino al sabato. Insomma, la chiusura pareva a molti in quel momento un provvedimento poco costoso, temporaneo e forse perfino esagerato.
Una settimana dopo, il 29 febbraio, chi lavora nella scuola cominciò a capire che la questione sarebbe stata decisamente più seria e che non si sarebbe risolta con qualche giorno extra di vacanza per il carnevale. La sospensione delle lezioni venne estesa indefinitamente nelle regioni e province più colpite dall’epidemia, che nel frattempo era esplosa anche nel focolaio bergamasco. Inoltre, il Ministero ordinava ai dirigenti scolastici delle scuole coinvolte di attivare “modalità di didattica a distanza”. Le linee guida per la “DaD” furono diffuse dal Miur il successivo 17 marzo, quando la chiusura era ormai stata estesa alle scuole di tutta Italia.
Il documento del 17 marzo è un piccolo gioiello: scritto in un linguaggio non troppo burocratico, chiaro, sintetico (solo 8 pagine). Indicava in modo preciso come la didattica a distanza, che nel frattempo era già stata avviata in molte scuole, dovesse fare tesoro delle tante esperienze innovative in atto già da anni nelle scuole italiane.
Era al tempo stesso esigente e tranquillizzante. Chiedeva a dirigenti e docenti di riflettere su che cosa sia essenziale nel concetto di scuola e di comunità scolastica, con un’attenzione particolare per gli studenti più vulnerabili, e invitava a lasciar perdere il resto, cioè burocrazia e formalismi.
Suggeriva di sviluppare la didattica a distanza in autonomia e con responsabilità, utilizzando tutte le risorse a disposizione e promettendone di nuove. E soprattutto, offriva una copertura giuridica precisa: definendo le linee da applicare, rassicurava implicitamente che, rimanendo nel loro ampio alveo, scuole e dirigenti sarebbero stati al riparo da contestazioni ed eventuali ricorsi.
Giudicata col senno di poi, la decisione di chiudere tempestivamente le scuole nelle regioni e province più colpite e di estendere dopo pochi giorni la sospensione delle lezioni a tutto il territorio nazionale e puntare tutto sulla didattica a distanza è stata una delle mosse governative più azzeccate per contenere la diffusione dell’epidemia.
Come è ben noto a chiunque ci lavori, le aule scolastiche, spesso sovraffollate e difficili da aerare, sono un brodo di coltura di malanni e virus. Inoltre, lasciare a casa quasi 10 milioni di persone tra studenti, docenti e personale ha significato decongestionare i trasporti e i locali pubblici nel momento più critico della diffusione del contagio.
La decisione ha anche e soprattutto preservato le famiglie nelle quali bambini, ragazzi e adolescenti altrimenti sarebbero quotidianamente ritornati dopo essere stati a contatto con potenziali fonti di contagio.
Le statistiche, che attestano un minore, anzi quasi nullo coinvolgimento nell’epidemia dei ragazzi in età scolare, dimostrano la bontà del provvedimento di chiusura, nonostante siano state e vengano ancora usate per criticare la stessa decisione che l’ha determinato. L’insensatezza di queste critiche è stata evidenziata ulteriormente dal fatto che, una volta riaperti nella stagione estiva altri luoghi di aggregazione giovanile (bar, locali, discoteche, centri estivi e altri ancora), l’età media dei contagiati si è drasticamente abbassata, e il virus ha cominciato a interessare anche bambini e ragazzi che alcuni sostenevano essere immuni.
Insomma, come nella barzelletta del tizio che precipita da un grattacielo che si trova a riflettere sulla sua incresciosa situazione a metà caduta, verrebbe da dire: fin qui tutto bene.
Com’era del tutto prevedibile, nell’emergenza le scuole e i singoli docenti si sono comportati esattamente come erano abituati a comportarsi in precedenza, cioè in maniera estremamente varia per impegno e qualità del servizio erogato. Fatta la tara della situazione di oggettiva difficoltà creata a molti livelli dal lockdown, scuole ben organizzate, dirigenti attenti e responsabili, docenti professionali e competenti hanno continuato a svolgere il loro lavoro con efficienza, diligenza e creatività, fornendo ai loro studenti un buon surrogato della consueta attività didattica.
Allo stesso tempo scuole poco efficienti, dirigenti negligenti e insegnanti svogliati quando non assenteisti hanno continuato a esserlo, con un’unica rilevante differenza: rendere evidente la propria incompetenza a migliaia di famiglie, alle quali una didattica largamente insufficiente e inefficace stava entrando nelle case invece che rimanere confinata nelle aule scolastiche e, semmai, nei racconti non sempre affidabili degli studenti.
Da metà marzo in poi, man mano che le conferenze serali del presidente del Consiglio annunciavano l’estensione della chiusura delle scuole a fine marzo, e via via fino a date sempre più spostate verso la primavera inoltrata, qualcosa ha cominciato a scricchiolare.
Mentre col supporto anche economico del Ministero scuole e insegnanti continuavano a lavorare (chi bene, chi male, chi così e così, come prima, come sempre) e a cercare di risolvere il principale problema della didattica a distanza, ovvero il diffuso digital divide italiano e la presenza di una massa consistente di studenti privi dei mezzi tecnologici adeguati, critiche sempre più acrimoniose hanno cominciato a comparire sui mezzi di comunicazione e sui social.
Perlopiù, facevano leva sul fatto che gli insegnanti continuassero a essere pagati regolarmente, sul fatto che il diritto costituzionale all’istruzione non fosse universalmente garantito, sul fatto che da inizio marzo questo o quell’insegnante non si fosse più fatto vedere né sentire dai suoi studenti, sul fatto che la didattica a distanza gravasse eccessivamente sulle famiglie e impedisse o rendesse estremamente disagevole ai genitori dedicarsi alle proprie attività lavorative svolte in smart working o meno.
Nonostante i dati statistici diffusi dal Ministero attestassero un sostanziale successo della didattica emergenziale, pur nella persistenza di gravi problemi, e i sindacati facessero notare che ci sarebbe mancato solo che gli insegnanti non venissero pagati, dal momento che stavano continuando a lavorare nonostante la chiusura delle scuole, nei confronti del sistema dell’istruzione pubblica il clima sociale di solidarietà ed empatia che aveva caratterizzato le prime settimane di lockdown, quelle degli applausi e delle canzoni dai balconi, si è rapidamente deteriorato.
Sono comparsi così in sedi più e meno autorevoli concetti totalmente privi di senso come quello secondo cui la qualità della didattica a distanza si dovrebbe misurare in termini di ore di lezione frontale erogate tramite videoconferenza, o quell’altro per il quale sarebbe stata opportuna una continuazione dell’anno scolastico nei mesi estivi per “recuperare il tempo perduto”.
E, naturalmente, si sono levati alti lai nel momento in cui la ministra Azzolina ha dichiarato, invero con modi e tempi un po’ maldestri, che i normali criteri di promozione e bocciatura quest’anno non sarebbero stati applicabili: un’osservazione di totale ragionevolezza e buon senso, perfettamente coerente con quanto la legislazione scolastica prescrive da più di due decenni, ma ugualmente colta come occasione per pensosi e funerei editoriali sulla morte della meritocrazia, sull’inesorabile tragedia generazionale cui la improvvida decisione della ministra ci avrebbe consegnato e su altre piaghe e cavallette assortite.
Nel frattempo si era arrivati all’inizio di maggio e cominciava a essere evidente che, vista la situazione dell’epidemia ancora ben lungi dall’essere risolta o anche solo rientrata in parametri rassicuranti, per il corrente anno scolastico le scuole sarebbero rimaste chiuse in via definitiva. È stato il colpo finale che ha fatto crollare ogni resistenza alla critica generalizzata.
Commentatori e opinionisti favorevoli alla riapertura hanno tirato in ballo un po’ di tutto: dal pressoché infallibile segnalatore di stupidaggine «queste cose succedono solo in Italia» a pensose riflessioni sulla portata simbolica dell’auspicata riapertura.
A poco valeva, in quei giorni, far notare che i rischi sarebbero stati molto alti in cambio di vantaggi inesistenti; che in alcuni Paesi le scuole erano effettivamente state riaperte, ma solo per essere precipitosamente richiuse dopo pochi giorni, all’esplodere di nuovi focolai proprio nelle scuole e alla ripresa della curva dei contagi.
E che la comparazione con altri Paesi fosse del tutto priva di senso senza considerare anche un confronto tra le diverse scansioni e tempistiche dell’anno scolastico, le diverse condizioni dell’edilizia scolastica, il diverso numero medio di studenti per classe, la differente logistica dei trasporti pubblici, le precauzioni e le normative profilattiche adottate nei diversi Paesi, e perfino il diverso clima o la diversa densità della popolazione.
In questa situazione, è interessante capire e descrivere il ruolo svolto dalla ministra stessa, non tanto e non solo come astratta figura istituzionale, ma proprio come individuo: Lucia Azzolina, siciliana, ministra in quota Cinque stelle, giovanissima per il ruolo (38 anni non ancora compiuti), due lauree (filosofia e giurisprudenza), un passato da docente di ruolo e da sindacalista e, a completare un curriculum certamente migliore di quello di tanti suoi predecessori, una spiccata somiglianza con una giovane Sabina Guzzanti.
Eletta deputata nel 2018, membro della Commissione cultura, ricerca e istruzione della Camera, la Azzolina è approdata al ministero nel settembre del 2019 con l’incarico di sottosegretaria nel governo Conte II. Due mesi dopo, in seguito alle dimissioni di Lorenzo Fioramonti, viene nominata ministra.
Dopo un inizio di mandato tutto sommato tranquillo, l’emergenza dovuta al Covid-19 l’ha portata ad apparire sempre più spesso alla ribalta, a fianco del presidente del Consiglio. In altre parole, con il diffondersi dell’epidemia e la contemporanea serie di apparizioni di Conte sui teleschermi degli italiani, la Azzolina è divenuta un volto noto non solo per gli operatori della scuola, ma per il grande pubblico. La somiglianza con la Guzzanti ha, in un certo senso, aiutato la crescente popolarità.
Nel poco invidiabile ruolo di volto pubblico della scuola italiana nel mezzo dell’emergenza, la Azzolina ha avuto un grande merito e un grande demerito.
Il merito è che ha fatto per alcune lunghe settimane da parafulmine a tutto il sistema scuola. Le critiche talvolta pretestuose che hanno bersagliato la scuola si sono indirizzate prevalentemente su di lei, sulla sua conduzione delle conferenze stampa, sul suo essere una donna di bell’aspetto, ma talvolta un po’ spaesata e stralunata, su alcune ingenuità comunicative dovute chissà se alla sua inesperienza politica, a una capacità retorica non affinatissima, alla consueta tendenza grillina di proporre soluzioni semplicistiche a temi complessi, all’oggettiva difficoltà della situazione e all’enorme responsabilità di doverla gestire.
In ogni caso, le polemiche anche feroci contro la scuola e gli insegnanti hanno cominciato a dirigersi verso di lei, con grande sollievo di tutti gli insegnanti medesimi.
Il demerito è che ha cominciato a perdere colpi. Se tutto sommato nella prima fase dell’emergenza, come scrivevo in precedenza, Governo e Ministero avevano risposto con tempestività e con efficacia alla crisi, nella parte finale dell’anno scolastico la ministra non ne ha più azzeccata una.
Già bombardata da critiche spesso ingenerose, la Azzolina ha cominciato a fornire qualche buon argomento ai propri detrattori, e a farsene di nuovi.
Abbiamo già detto della questione della non riapertura delle scuole per questo anno scolastico: la ministra è riuscita ad attizzare polemiche e critiche tergiversando, non comunicando chiaramente e per tempo le decisioni prese, perfino contraddicendosi e lasciando intendere il contrario di ciò che poi, effettivamente, è stato disposto.
La decisione di non riaprire le scuole solo per una settimana o dieci giorni, esponendo a inutili rischi studenti, docenti, personale e famiglie, in assenza di adeguate misure di sicurezza e senza alcun sostanziale beneficio in termini didattici, era giusta o, in ogni caso, ragionevole.
Tuttavia, è stata comunicata nel peggior modo possibile. I tentennamenti in merito hanno scontentato tutti, sia i fautori della riapertura (tra i quali anche molti insegnanti) sia coloro che ritenevano ci si dovesse piuttosto concentrare sul rientro in sicurezza a settembre, con il nuovo anno scolastico.
C’è stata poi la questione dell’Esame di Stato: forse nell’illusione di dare un contentino ai critici che chiedevano la riapertura delle scuole, la ministra ha disposto che l’ex Maturità non si svolgesse in modalità online, bensì in presenza, seppur in forma ridotta, senza prove scritte. Quale fosse il beneficio di questa decisione non era chiaro e non è chiaro nemmeno adesso, a esami svolti.
L’intenzione, forse, è stata quella di dare un segnale di vitalità e speranza, e di svolgere una sorta di prova generale a ranghi molto ridotti della futura riapertura generale delle scuole. Tuttavia, ancora una volta l’operazione è stata comunicata in modo pessimo.
L’esame live è stato maldestramente giustificato da patetiche dichiarazioni della ministra riguardanti l’essere stato quello dell’esame il più bel giorno della sua vita, poetico ed emozionante. Qualcosa, insomma, che gli studenti definirebbero cringe e che i tanti adulti che lavorano nella scuola o che sono soliti commentarne le vicende hanno accolto chiedendosi se la ministra ci fosse o ci facesse.
Il risultato pratico della decisione è stato quello di costringere mezzo milione di studenti e docenti a sobbarcarsi spostamenti e rischi per svolgere un esame che si sarebbe tranquillamente potuto tenere online, nonché trovarsi in estrema difficoltà a reperire i presidenti di commissione.
Infatti, com’era del tutto prevedibile, molti docenti che non sono tenuti a presentare la domanda, ma che tutti gli anni in condizioni normali lo fanno ugualmente sobbarcandosi in media tre settimane di straordinari per una retribuzione pari a poco più che una mancia, quest’anno si sono fatti due conti, hanno comparato rischi e benefici, e hanno declinato.
In ogni caso, con gli esami e le annuali procedure di trasferimento e assegnazione ancora in corso, tutto il mondo della scuola ha iniziato ad attendere qualche segnale che indicasse uno spostamento del focus di governo e Miur sulla vera, grande sfida aperta davanti alla scuola italiana: la ripresa di settembre.
E qui le cose hanno cominciato a farsi surreali.
(1. Continua)