Molto spesso il referendum è una clava per colpire gli avversari. Nei referendum “storici”, in primis quello sul divorzio, le ragioni politiche, oltre che quelle di merito (in quel caso, gigantesche) accompagnarono e spesso determinarono la scelta per il Sì o per il No: nel caso specifico, il voto del 12 maggio 1974 ebbe enormi implicazioni politiche, il crollo di Amintore Fanfani, l’avvio di una stagione diversa. O il referendum di Mario Segni sulla preferenza unica nel ’91, formidabile strumento per intralciare i disegni di Bettino Craxi. O ancora quelli sul maggioritario, che diedero un colpo decisivo alla Prima Repubblica.
Nel caso di questo referendum forse la posta in gioco non è così alta, non sembra in questione la sorte del governo Conte in quanto tale ma semmai l’indebolimento politico del principale partito della maggioranza, il Movimento 5 stelle, “padre” della riforma sottoposta al voto degli italiani per una sua conferma o un suo rigetto, ed è infatti il Movimento 5 stelle – come ha notato Andrea Cangini, di Forza Italia ma fermo sostenitore del No – l’unico partito a dover temere qualcosa dal risultato delle urne.
Fino a un mesetto fa il Sì era dato dai sondaggisti (non si sa in base a quale elementi) all’80% contro il 20%. Adesso non si sa ma la percezione è che il No sia molto cresciuto soprattutto grazie alla sfilza di pronunciamenti in tal senso di giuristi, opinion maker, politici di varia estrazione politica: sicché si può prevedere che non sarà il plebiscito che veniva ipotizzato, e se questa dovesse spingersi ancora più in là non sarebbe affatto scontata la vittoria dei Sì.
Ma dietro le ragioni “visibili” e di merito (vanno però qui sottolineare l’evidente crisi argomentativa del Partito democratico e il silenzio della destra), probabilmente in profondità c’è qualcos’altro.
Forse un movimento sotterraneo di un pezzo di società che attraverso il voto vuole dire qualche cosa che ancora non comprendiamo bene, come se attraverso l’arma del No, un monosillabo così evocativo, volesse mandare un segnale di forte critica ai vari attori sulla scena politica.
Lo ha indovinato Pierluigi Castagnetti, non a caso un politico di lunga esperienza, che ha twittato una frase suggestiva: «Mi sembra di fiutare che nel paese stia formandosi un clima già visto per il referendum Renzi». Parrebbe cioè che come nel 2016 si vada coagulando una opposizione allo status quo, esattamente come quella che si cristallizzò contro l’allora premier (che com’è noto esasperando l’identificazione fra il Sì e sé stesso agevolò la sconfitta, un errore che per la verità Luigi Di Maio non sta commettendo).
Una critica allo status quo è fatta di tante cose. In questo momento è forte nel Paese l’angoscia di non saper affrontare una nuova pandemia, il fastidio per un governo che si mostra incerto sulle cose da fare (la scuola, i tamponi ecc), l’ansia per una crisi economica contro cui non si prospettano ricette credibili; e sul piano più politico, si solidificano – proprio grazie al No – tutti le contrarietà di parti importanti del Partito democratico e di un’enorme fetta della sinistra (praticamente solo Articolo Uno di Bersani e D’Alema vota Si) non solo al merito della riforma ma all’intesa con i Cinque Stelle che ne è il pegno politico.
Messo tutto insieme, si ha l’impressione di una pentola in ebollizione pronta a saltare sul fornello acceso di un referendum che i sostenitori non riescono a spiegare se non ricorrendo alla più banale demagogia anti-casta dei grillini o, nella versione più “colta” dei tifosi dem, al cervellotico argomento che è meglio aprire “una breccia” che niente. Intanto il taglio, poi si vedrà: un modo grottesco di pensare le riforme della Costituzione che sta suscitando un profondo malessere nei gruppi dirigenti e nella base del Partito democratico.
Quanto alla destra, si è detto. A Salvini di questa roba non importa nulla, ed anzi si va manifestando nella Lega il timore (peraltro fondatissimo) che il taglio dei parlamentari tagli loro stessi, una certezza che alberga anche nella testa di tanti parlamentari miracolati eletti nel M5s che con meno parlamentari possono già dire addio allo scranno e allo stipendio.
Sorprendentemente, dunque, alla fine abbiamo il sistema politico – volgarmente, la Casta – per il Sì e pezzi di società (ancora al livello di élite allargate) per il No. Ma se queste élite dovessero incontrare il malcontento di massa cosa potrebbe succedere?
La conclusione necessariamente provvisoria è che il Sì, che certamente può ancora fare affidamento sul consolidatissimo antiparlamentarismo degli italiani e su un legittimo malessere per il cattivo rendimento del nostro Parlamento, sembra perdere la sua carica “rivoluzionaria” senza peraltro acquisirne un’altra di tipo riformista, mentre per converso è proprio il No a esprimere e a sintetizzare la critica a un mondo politico percepito come inadeguato all’emergenza storica che stiamo vivendo e, forse, a essere maggiormente in sintonia con gli umori profondi del Paese reale. Molto più di quanto s’immaginasse.