Se rispecchiassero i voti parlamentari il Sì dovrebbe prendere il 90 per cento. Impensabile: qui ogni giorno c’è qualcuno che scappa o si converte al No.
Il disimpegno dei partiti che in Parlamento (alla quarta votazione) votarono a favore del taglio è destinato a perdurare. Il che potrebbe avere qualche conseguenza persino sull’esito del voto che improvvisamente è diventato meno scontato. Certo non sarà un plebiscito.
Se il grosso dell’elettorato della destra e anche del Partito democratico disertasse le urne (a parte ovviamente laddove si vota per le Regionali) la partita si farebbe interessante, perché è chiaro che i sostenitori del No sono più politicizzati, più motivati. Ai seggi ci andranno eccome. E se in una regione come la Campania, il governatore uscente e verosimilmente rientrante Enzo De Luca si schiererà per il No, come pare certo, la bilancia penderebbe ancora di più a sfavore della riforma grillina.
Persino i grillini tacciono, s’inventano fanfaluche “strategiche” tanto per menare per il naso il Partito democratico, oppure già si concentrano su chi farà o non farà il “capo politico” quando Vito Crimi avrà rassegnato le sue non indimenticabili dimissioni.
D’altra parte non è più neppure il “loro” referendum, in origine pensato per ritrovare una verginità anticasta proprio mentre della casta diventavano il nocciolo duro. È diventato invece una trappola mortale per molti parlamentari Cinquestelle: odiano una riforma che sarà complice del loro ritorno a casa proprio per colpa del taglio da loro voluto. Perché dunque infilare la testa nel cappio votando Sì? Infatti c’è il primo dissenso, quello della deputata Elisa Siragusa. Un tabù rotto.
La destra da parte sua non è mai entrata in campo. Solo Giorgia Meloni, non a caso la più affine ai grillini almeno sotto l’aspetto dell’istinto demagogico, ci si butterà un po’ anche perché Fratelli d’Italia forse è il solo partito, stante i sondaggi di oggi, che non ha nulla da temere dal taglio, e questo pur mettendo nel conto dissensi importanti come quello di Guido Crosetto («Questa riforma è un colpo alla democrazia») e chissà forse di un nipotino della Democrazia cristiana come Raffaele Fitto.
È tutto da vedere poi se l’elettorato profondo della Lega risponderà a una eventuale chiamata alle urne da parte di un Matteo Salvini che non si capisce bene che interesse ha a vedere ridotta la presenza leghista in Parlamento: vero è che in lui alberga ancora l’idea di utilizzare il referendum come l’avviso di sfratto al governo Conte dato che tutto fa brodo, come diceva il Cavalier Mussolini: ma è armamentario tutto politicista, non è il referendum l’arma-fine-di-mondo che può sollevare le masse del Nord, in questa fase preoccupate di tutt’altro.
Per non parlare di Forza Italia, che di fatto ha sdoganato il No. Hanno evidentemente fatto breccia i battaglieri Cangini, Baldelli, poi Mulé, fino al sottile ragionamento di Mara Carfagna che ha usato argomenti che la portano a votare Sì ma che potrebbero essere tranquillamente a sostegno del No (in sintesi, riforma cattiva ma si apre un percorso) e infine al grande dissenso di Renato Brunetta: «Se vince il Sì, vince il Movimento cinque stelle e l’antipolitica, perdono sia il centrodestra che il centrosinistra».
Ci si poteva pensare prima. In Parlamento. Dove a fare la battaglia contro la riforma fatta «con la cesoia» (definizione di Gianni Cuperlo, Partito democratico) rimasero soli i riformisti, Italia Viva, +Europa e pochi altri.
E per completare il quadro, adesso tutti si accorgono che il Partito democratico sta per disertare o quasi la campagna vera e propria. Alla Direzione dei primi di settembre dovrà prendere una decisione formale (incredibilmente ancora non è stato fatto) che sarà, come anticipato da Linkiesta, favorevole al Sì ma con totale libertà di voto (che è qualcosa di diverso dalla libertà di coscienza, che presuppone un libero dissenso: qui è come se vi fosse pari dignità fra Sì e No). Ed è facile immaginare il successivo proliferare di adesioni al No. Già ora vari ministri del governo Conte voteranno diversamente dal premier e fra questi anche almeno un ministro del Partito democratico, per non parlare dei sottosegretari.
E non è una coincidenza casuale il fatto che parallelamente alle divisioni sul referendum si stia aprendo pubblicamente una discussione molto seria sulla linea della cosiddetta “alleanza strategica” con i grillini che forse sta per essere abbandonata.
A Goffredo Bettini che ha rilanciato sul Foglio l’ipotesi di un’intesa a tre (Partito democratico, Cinquestelle e riformisti guidati da Matteo Renzi) hanno replicato dicendo no ad alleanze a tavolino quattro esponenti di aree diverse: Cuperlo (sinistra), Maurizio Martina (già sfidante di Zingaretti), Alessandro Alfieri (Base riformista) e Luigi Zanda (da sempre vicino a Franceschini). È la prima posizione unitaria dei no-Zinga. Da parte sua il segretario per la prima volta nella sua vita si dice in disaccordo con Bettini. Un altro tabù che si rompe.