Ognuno come gli pareIl Pd vota Sì ma se ne vergogna e fa finta che il referendum non lo riguardi

La posizione ufficiale del Nazareno è dettata dall’opportunismo e dall’alleanza di governo. Ma non si faranno spot, battaglie, propaganda: ci sono troppi esponenti dem di rilievo, da Orfini a Gori, da Nannicini a Cuperlo, già allineati sul No. E, sorpresa, anche qualche ministro

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Alla fine il Partito democratico è costretto a mollare. Sostanzialmente scappa da una pugna che lo divide al suo interno e dagli “alleati strategici” del Movimento cinque stelle, nonché dal gran “punto di riferimento dei progressisti”, l’avvocato del popolo Giuseppe Conte, abbandona con la scusa che i problemi sono altri.

Certo, per non perdere la faccia il Partito democratico dirà di votare Sì ma senza fare la battaglia, non farà propaganda, non più del minimo sindacale e forse neppure quello, di fatto lascerà ai suoi elettori libertà di voto: che passi ‘a nuttata in questa storia del taglio dei parlamentari cominciata male e finita peggio. Domani è un altro giorno, si vedrà.

Non può reggere, il Nazareno, una spinta per il No che ormai è tracimata sul corpo vivo del partito, una pressione che ha convinto buona parte del gruppo dirigente a non asserragliarsi a difesa di una riforma considerata – parola di un alto esponente dem – “inutile”.

Ormai non si tratta più di parlamentari ma anche di sottosegretari, perfino di ministri orientati a votare No. Ed è l’ala più moderata a spingere il segretario a non impegnare il partito in una battaglia referendaria che lo vedrebbe al fianco di Giuseppe Grillo, Meloni e Salvini e contro pezzi diversi del suo partito, dalla sinistra interna agli ex renziani, una tenaglia che morde il freno sulla linea generale del Nazareno e che potrebbe chiudere la sua morsa sull’attuale gruppo dirigente: e il referendum è un passaggio della lotta interna che improvvisamente si è riaperta o quantomeno serpeggia sottotraccia.

E poi, certamente, questa spinta per il No ha ricevuto un impulso decisivo dal posizionamento del direttore di Repubblica Maurizio Molinari. Questi è stato fin troppo preciso nella sua argomentazione, di fatto coincidente con quella di Tommaso Nannicini, Giorgio Gori, Gianni Cuperlo, Matteo Orfini, per poter essere sottovalutata: e poi Repubblica è Repubblica, non solo il secondo giornale italiano (mentre anche tante firme del primo, il Corriere della Sera, si pronunciano singolarmente per il No), ma è da sempre “il” giornale di riferimento del Partito democratico, e anche se è lontano il tempo in cui Carlo De Benedetti chiedeva la tessera numero uno (il suo Domani sarà anch’esso per il No), certo le idee del quotidiano di largo Fochetti “formano” l’opinione degli elettori dem mille volte di più di un comizio di Nicola Zingaretti.

Ma è da giorni che, a microfoni spenti, tanti dirigenti del Partito democratico hanno capito che è meglio stare alla larga dal muro contro muro tipico di uno scontro referendario. La macchina del partito, già abbastanza usurata, non mostra di essere pronta ad una corsa che non vive come “sua”: al momento non risulta nessun banchetto per il Sì, nessuno spot, si disertano perfino le tribune elettorali, non esiste nessuna propaganda particolare.

Vedremo che cosa succederà alla Festa nazionale dell’Unità di Modena, dove in ogni caso ci sarà spazio anche per i sostenitori del No, ma è facile prevedere che la linea comunicativa del Nazareno sarà ultra-soft, un modo per evitare lacerazioni che si sommerebbero e si incrocerebbero con le polemiche sulla “alleanza strategica” con i grillini, un’intesa che, come raccontano le cronache, sta naufragando proprio laddove doveva sedimentarsi, cioè a livello locale, anche ma non solo a causa della clamorosa presa in giro di Di Maio e Crimi che avevano promesso un’intesa che si è rivelata una sôla, come si dice a Roma, un fantasma, sia nelle Marche che in Puglia.

Ma se sminare il nervosismo sul referendum forse sarà possibile grazie alla libertà di voto, nascondere una eventuale sconfitta in 4 regioni su 6 sarebbe impossibile. Tutto è legato alla performance di Michele Emiliano, di fatto un nemico del Partito democratico: un paradosso emblematico di una situazione fuori controllo.

Ma se finisce 4 a 2 per la destra Nicola Zingaretti ha fatto sapere informalmente di non escludere nulla. A partire dalle sue dimissioni. Non accadde anche a D’Alema e a Veltroni dover lasciare il posto dopo una sconfitta alle Regionali?

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