Venerdì 4 settembre alla Casa Bianca i rappresentanti di Serbia e Kosovo, il presidente serbo Aleksandar Vučić e il premier kosovaro Avdullah Hoti, hanno firmato un accordo di cooperazione. Nel presentarlo ai media, il presidente americano Donald Trump ha definito l’accordo «storico», sottolineando come l’intesa sia anche una vittoria per Israele. La Serbia trasferirà la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme e Israele e Kosovo si riconosceranno ufficialmente, allacciando rapporti diplomatici.
Come riconosciuto dagli addetti ai lavori, Trump ha finalmente ottenuto, in extemis, quello che voleva: un successo di politica estera. L’accordo, arrivato a 60 giorni esatti dalle elezioni presidenziali americane, è una vittoria della sua amministrazione.
Non è un esito inaspettato. Come già scritto da Linkiesta, più che a stabilizzare la regione balcanica, tutta l’azione del rappresentante Usa per il dialogo Serbia-Kosovo Richard Grenell, artefice primo di quest’intesa, è stata infatti finalizzata a dare al proprio presidente una vittoria diplomatica da spacciare come “storica” in campagna elettorale. Fin dal sua nomina (ottobre 2018), Grenell si era distinto per un approccio muscolare incentrato esclusivamente sugli aspetti economici, visti come prioritari rispetto agli aspetti politici.
La linea opposta a quella tenuta dall’Ue che, nel contesto del dialogo Belgrado-Pristina, ha impostato la normalizzazione dei rapporti tra la Serbia e la sua ex provincia meridionale su un approccio multi-dimensionale che include anche aspetti politici, come per esempio i rapporti tra i gruppi nazionali presenti nei due paesi.
Le varie sezioni dell’accordo confezionato nello studio ovale sono suddivisibili in due categorie: politica estera e rapporti bilaterali tra i due Stati. Se la prima sembra molto problematica, la seconda presenta molti dubbi in termini di effettiva applicazione. Sul piano della politica estera, le criticità derivano dal fatto che alcune condizioni dell’accordo sono manifestatamente dissonanti rispetto alla linea dell’Ue, alla cui politica estera sia Kosovo che Serbia sarebbero tenuti a uniformarsi in quanto Stati candidati all’adesione.
Infatti, l’accordo di fatto vincola i due Stati balcanici a conformarsi in toto alle posizioni americane, fattesi tra l’altro molto radicali sotto l’amministrazione Trump: se per il Kosovo, che da Washington dipende interamente, questa non è una grande novità, per la Serbia – così attenta a triangolare con potenze diverse e rivali – si tratterebbe di un notevole cambio di rotta.
Oltre a trasferire l’ambasciata a Gerusalemme (la Serbia) e a riconoscere Israele (il Kosovo), i due contraenti si sono impegnati a dichiarare “gruppo terroristico” l’intero movimento Hezbollah (la fazione sciita libanese sostenuta dall’Iran) e non solo la sua componente militare, e a estromettere Huawei dallo sviluppo della propria rete 5G – condizione espressa con l’ormai nota perifrasi burocratica “proibire l’utilizzo di tecnologia 5G prodotta da fornitori non affidabili”.
Su queste tre tematiche (Israele-Palestina, Hezbollah e Huawei), le posizioni di Ue e Usa sono divergenti.
Bruxelles resta contraria al trasferimento delle ambasciate nella Città Santa, ovvero al riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, ritenendolo un ostacolo alla risoluzione diplomatica del conflitto israelo-palestinese, come ribadito anche lo scorso gennaio in un documento ufficiale del Consiglio sottoscritto anche dalla stessa Serbia.
Allo stesso modo, nella lista delle formazioni che l’Ue considera gruppi terroristici figura finora soltanto la branca militare di Hezbollah, e non la sua espressione politica, cioè il partito politico che partecipa regolarmente alle elezioni libanesi e che, peraltro, al momento siede nella coalizione di governo. Una posizione sempre più contestata e recentemente abbandonata dalla Germania, ma che per il momento i 27 sembrano intenzionati a mantenere, poiché permette di negoziare con un attore comunque decisivo per gli equilibri di Libano e Medio Oriente e, indirettamente, con il suo patrono, l’Iran.
Su Huawei, infine, l’Ue non ha ancora elaborato una posizione netta. La pressione diplomatica Usa ha portato alcuni Stati, come per esempio quelli dell’Europa centrale, a rivedere le proprie posizioni, ma si è ancora in attesa di scoprire quale posizione prenderà Berlino e, di conseguenza, il resto del blocco.
Se davvero Belgrado e Pristina mettessero in pratica questi propositi, non entrerebbero in contrasto solo con i partner Ue, ma anche con altri e potenti amici.
Poiché il Kosovo, per esempio, sarebbe il primo Stato a maggioranza musulmana a spostare l’ambasciata a Gerusalemme, la Turchia, attore molto influente nel piccolo Stato balcanico, non ha accolto molto bene la notizia. E pare difficile che la Serbia possa abbandonare del tutto Huawei, dopo averle affidato lo sviluppo di un’infrastruttura così sensibile come un sistema di sorveglianza tramite riconoscimento facciale, applicato sul territorio di Belgrado.
Anche sul piano dei rapporti bilaterali, gli esperti si aspettano che molte intenzioni rimangano lettera morta.
Una delle questioni più calde, cioè il riconoscimento del Kosovo e la sua presenza sul piano internazionale, è stata soltanto congelata. Sostenuta da Russia, Cina e cinque Stati Ue (Spagna, Slovacchia, Grecia, Romania e Cipro), la Serbia continua a non riconoscere l’indipendenza dichiarata unilateralmente dal Kosovo nel 2008 e a boicottarne l’ingresso nei vari consessi internazionali. Proprio una di queste mosse aveva esacerbato le tensioni, spingendo Pristina a introdurre dazi del 100 per cento sulle importazioni da Serbia e Bosnia a novembre 2018.
Su questo aspetto così centrale l’accordo si limita a introdurre una moratoria di un anno: Belgrado sospenderà la propria campagna di “dericonoscimento” del Kosovo – il tentativo di convincere Stati terzi a interrompere i rapporti diplomatici con l’ex provincia meridionale – e in cambio Pristina si impegna a non cercare di entrare nelle organizzazioni internazionali. Nessuna soluzione, tutto solo dilazionato di dodici mesi.
Una parte dell’accordo reitera gli impegni già presi dai due contraenti in campo logistico e infrastrutturale (connessioni via treno e via aereo). Un’altra, molto più ambiziosa, prevederebbe la cooperazione fattiva tra i due governi, come per esempio nell’identificazione dei resti delle persone che ancora risultano scomparse dopo la guerra di secessione del Kosovo (1998-’99) o nella gestione condivisa del lago di Gazivode (Ujmani, in albanese) a fini energetici. Vista l’alta sensibilità del tema, finora i due governi hanno ignorato gli appelli a collaborare per almeno identificare definitivamente le vittime ancora senza nome del conflitto e l’ex premier kosovaro Ramush Haradinaj, il cui partito partecipa all’attuale coalizione di governo, si è già detto contrario all’ipotesi di cogestione di una risorsa così strategica come il lago di Gazivode.
Una notizia unanimemente salutata come positiva è invece l’impegno sottoscritto dagli Usa a investire direttamente nei due paesi, facilitandone la cooperazione economica. Complessivamente, tuttavia, di questo accordo risalta soprattutto la vaghezza, caratteristica che permette ampi margini di interpretazione autonoma ai due Stati rivali.
Un articolo recita, per esempio, «le due parti si impegnano a diversificare le proprie fonti di approvvigionamento energetico», ma non chiarisce come. Un altro specifica che i due Stati si impegnano ad aderire alla cosiddetta “mini-Schengen”, l’area di scambio e cooperazione di cui in realtà la Serbia fa già parte assieme ad Albania e Macedonia del Nord e che comunque sembra un progetto già accantonato.
Addirittura, i tre firmatari hanno siglato tre documenti diversi, tra loro differenti per alcuni aspetti e formulazioni. Non è quindi chiaro se Serbia e Kosovo abbiano firmato un accordo tra loro sotto l’egida degli Usa, o se abbiano invece firmato due accordi diversi, che li impegnerebbero verso Washington ma non verso l’altra parte. Nemmeno è chiaro se questi documenti andranno sottoposti ai rispettivi parlamenti per la ratifica o se già da ora siano da considerarsi validi e vincolanti. Lo stesso Grenell è parso in difficoltà a chiarire questi aspetti fondamentali.
L’impressione, allora, è che se qualcosa di “storico” c’è davvero in questo accordo è per le sue possibili ricadute sulle elezioni americane, non per quelle sulla stabilità o la prosperità dei Balcani occidentali.