La settimana scorsa il Segretario di Stato statunitense Mike Pompeo ha visitato quattro paesi dell’Europa centrale: Cechia, Slovenia, Austria e Polonia. Obiettivo: convincere gli alleati a bandire definitivamente Huawei dal loro sistema 5G e a riallinearsi senza indugi alla linea di Washington.
In una regione che – Austria esclusa – sperimentò per quasi mezzo secolo il sistema socialista e le ingerenze dirette dell’Unione sovietica (Urss), Pompeo ha paragonato l’attuale influenza di cui gode la Cina a quella dell’Urss, spiegando come la prima sia molto più pericolosa oggi di quanto lo sia stata la seconda nel Novecento. Questo perché, secondo Pompeo, «il Partito comunista cinese è già permeato nelle nostre economie, nella nostra politica e nelle nostre società in modalità che l’Unione sovietica non riuscì mai a raggiungere». Affermazioni rilasciate in un discorso al Parlamento di Praga, città invasa dai sovietici nel 1968.
La visita di Pompeo – secondo i critici poco più che una vacanza con la moglie pagata dai contribuenti – è avvenuta sullo sfondo della campagna elettorale del presidente Donald Trump, sempre più in affanno nei sondaggi e alla spasmodica ricerca di un qualche successo di politica estera da esibire a un elettorato largamente delusa dalla sua (non) gestione dell’emergenza coronavirus. Il recente accordo tra Israele ed Emirati arabi uniti, annunciato proprio da Trump, rientra in questa logica.
Come già scritto da Linkiesta, la partita geopolitica che si gioca su Huawei, azienda cinese leader globale nel 5G, assume nell’Europa post-comunista declinazioni decisive. Qui ci sono Stati molto vulnerabili alle influenze esterne, dove quindi la Cina sta cercando di imporsi tramite il format 17+1 per tentare l’incursione nell’Europa occidentale, economicamente e politicamente più allettante.
Pechino guarda al quadrante centro-europeo come al trampolino da cui poi planare verso Ovest. Questo è il motivo per cui la Casa Bianca riserva attenzioni così frequenti a una regione così marginale.
In ottica americana, il bilancio del tour di Pompeo è in chiaroscuro.
Il risultato principale e più positivo è stato la sigla di un’intesa con la Slovenia finalizzata a costituire un “clean network” che, trascurando i tecnicismi, sottintende un messaggio limpido: Lubiana si riaccoda fedelmente a Washington, segnalando un’affinità ancora più marcata dopo l’avvento al potere del sovranista Janez Janša. Non a caso, a fine luglio la Ericsson ha comunicato di aver inaugurato i lavori per approntare la prima linea 5G commerciale su suolo sloveno.
La Slovenia si aggiunge al finora breve elenco di Stati membri dell’Unione che si sono già impegnati ufficialmente a estromettere la compagnia di Shenzhen dagli appalti per lo sviluppo nazionale del 5G: Regno Unito, Romania, Lettonia, Estonia e Cechia. Quest’ultima, che lo scorso maggio si è impegnata a cooperare con gli Stati Uniti sul tema, ha tuttavia riservato una mezza doccia fredda al diplomatico americano.
Intervenendo dopo di lui, il premier ceco Andrej Babiš, che pure era stato uno dei leader europei meno teneri con Huawei, ha ribadito la volontà di scegliere autonomamente, liberi da costrizioni esterne: «on tutto il rispetto dovuto ai nostri investitori americani, io voglio più investimenti dalla Cina», ha dichiarato Babiš.
Quanto questa presa di posizione possa essere seguita da fatti concreti resta dubbio, ma certamente è un messaggio significativo. Il fatto che il primo ministro ceco abbia citato direttamente il presidente Zeman, il politico che più risolutamente ha sostenuto la necessità di riorientare il paese verso Est (Russia e Cina), lascia intuire che le sue affermazioni tradiscano più esigenze di politica interna – assicurarsi il sostegno del presidente e dei suoi uomini in Parlamento – che la velleità di approfondire l’amicizia con Pechino.
In Polonia, paese già indiscutibilmente filoamericano (quindi anticinese), nulla di rilevante. Pompeo ha soltanto ufficializzato il trasferimento di circa mille soldati dei 9.500 richiamati dalla Germania, un’opzione che era nell’aria fin dall’annuncio di Trump.
In Austria invece non sono emerse novità sostanziali dalla visita di Pompeo, che si è limitato a concedersi un giro turistico a bordo di un tram celebrativo dell’amicizia tra Usa e Austria (tuttora ufficialmente neutrale e non membro Nato).
La principale notizia prodotta dalla passeggiata centro-europea di Pompeo è però una non-notizia. Come sempre negli affari diplomatici, conta chi c’è, ma soprattutto chi non c’è. Nella lista dei paesi visitati non figurano Slovacchia e Ungheria. Un messaggio cristallino: Washington non considera i due Stati più filorussi dell’Unione «grandi amici dell’America», riconoscimento invece assegnato ai quattro paesi visitati da Pompeo.
Budapest, dove si trova il più grande centro logistico di Huawei fuori dalla Cina, si è dimostrata fin troppo aperta all’influenza cinese; Bratislava, dove il verbo atlantista ha storicamente attecchito meno che altrove, pecca di eccessivo filogermanismo. Urge un cambio di rotta, sembra proclamare implicitamente questa esclusione.
Le autorità di Pechino hanno stigmatizzato la campagna anti-Huawei (e anti-cinese) condotta da Pompeo. L’ambasciata cinese in Polonia ha criticato le «affermazioni errate» del Segretario di Stato americano e ha invitato Washington ad abbandonare la «mentalità da Guerra fredda e adottare un atteggiamento da grande paese».
Questa crescente tensione tra Stati Uniti e le aziende hi-tech cinesi – proprio in questi giorni si sta consumando lo scontro sulla piattaforma Tik Tok – subirà uno sviluppo dirimente con l’imminente decisione che si attende dai pesi massimi dell’Unione, Germania e Francia, incaricate di definire una linea comune e trasmetterla al resto del blocco continentale.