Nonostante la crisi da Coronavirus, Airbnb si sta preparando per la quotazione in borsa. Un appuntamento che a Wall Street si attendono per la fine del 2020, un anno da montagne russe per l’azienda digitale che opera nell’indotto del turismo e della ricettività e che a febbraio aveva stimato perdite per 322 milioni di dollari: passivo che aveva portato al taglio del 25% del personale. Ma il management, forte di un modello di business che dal 2008 a oggi ha saputo crescere fino a oltre 7 milioni di annunci, non sembra preoccupato.
La piattaforma è presente in più di 100mila città, per un giro di mercato pari a 18 miliardi di dollari. Nonostante il blocco del lockdown la disruption del settore accelera e Airbnb ne è l’alfiere.
Anche in Italia, meta vacanziera per antonomasia, con città dall’appeal internazionale (i turisti stranieri lo scorso anno hanno contribuito per 44 miliardi di euro in valore) e un mercato immobiliare fatto di tanti piccoli proprietari per i quali aprire un account su Airbnb diventa un modo per mettere a reddito la vecchia casa di nonna (e, magari, sbarcare il lunario).
Un’attività che è arrivata a coinvolgere circa 459mila alloggi nel nostro Paese cambiando faccia a borghi dimenticati, centri storici, case di ringhiera e antichi casolari.
Il processo, tuttavia, ha lasciato i suoi strascichi sul mercato immobiliare, turistico e sociale. «Il tema degli effetti di Airbnb sui centri urbani è molto polarizzato. E come sempre, la verità sta nel mezzo», racconta Riccardo Staglianò, giornalista e autore di “L’affittacamere del mondo – Airbnb è la nostra salvezza o la rovina delle città?”.
Di certo esistono casi singolari: «A Firenze, almeno un quarto delle case è stato destinato ad affitto breve e quindi alla piattaforma Airbnb per un periodo. Per non parlare di Venezia, che prima del Covid sembrava un parco a tema dove l’offerta di beni e servizi si è costruita attorno alla figura del turista, anziché del cittadino dove i fornai diventano bakery, le macellerie diventano bistrot e le botteghe delle boutique», continua Staglianò.
L’altro lato della medaglia, però, raffigura una possibilità d’impresa che, in questo momento storico, potrebbe premiare proprio Airbnb: «L’effetto del Covid sul turismo in Italia ha generato un dimezzamento delle presenze straniere, soprattutto Nord Europa, Scandinavia e traffico internazionale. Un trend a cui Airbnb ha saputo rispondere meglio degli alberghi tradizionali. Innanzitutto, per una questione di sicurezza percepita, che premiava i piccoli appartamenti piuttosto che le grandi strutture ricettive. In secondo luogo, per la possibilità di arrotondare le entrate e crearsi una sorta di welfare privato».
D’altronde, i numeri dell’estate 2020 di Airbnb parlano chiaro. Gli host dell’entroterra toscano hanno registrato il +140% nei ricavi degli alloggi, tendenza confermata anche per quanto riguarda la campagna del Lazio (+124%), della Lombardia (+59%) e del Piemonte (+56%) dopo una primavera passata fra le disdette e le scartoffie.
«Ricordo che a marzo, nel giro di 20 giorni, mi hanno cancellato la totalità delle prenotazioni. Un disastro per chi come me lavora anche anno su anno. Magari con clientela straniera a cui abbiamo dovuto rimborsare le spese dal momento che non potevano accedere al voucher», spiega Edoardo Nestori, presidente dell’Associazione Locatori Turistici di Verona e gestore di cinque immobili nel centro città.
Da luglio, poi, è partita la ripresa. Ad agosto si è consolidata. E ora sembra allungarsi oltre settembre grazie a un turismo interno sempre più di prossimità.
Un fenomeno che, in Salento, dal mese di marzo 2020 ad oggi, ha visto i nuovi host di Airbnb guadagnare oltre 1,5 milioni di euro. «Ma a che prezzo? Attualmente gli appartamenti vengono messi in affitto a un quinto del prezzo originario, soprattutto per soggiorni più brevi e sporadici. Una dinamica che impone più costi di pulizia e sanificazione, nonché la presenza di personale dedicata per check-in e check-out. Se questo deve essere l’andamento a lungo termine, però, meglio affittarli più a lungo», conclude Nestori.
Se qualcuno è dubbioso, altri sono pronti a buttarsi nella mischia. «Dallo scoppio della pandemia e anche dopo la fine del lockdown non ho mai ripreso la mia attività di host, ma dal prossimo mese sono pronta a tornare sul mercato», dice Francesca Pilla, locataria turistica e autrice del manuale “Guadagnare con Airbnb – Manuale per affitti temporanei”.
«Forse ci sarà meno richiesta per via del blocco di alcune attività, come le fiere di settore a Milano, la mia città. Ma penso che anche l’offerta si sarà ridotta, con diversi host che saranno passati agli affitti tradizionali, anche mensile, ma sicuramente non per minimi periodi. In generale, saranno privilegiati gli appartamenti e le case con disponibilità di spazio esterno: una corte, un terrazzo o un giardino. Anche psicologicamente immagino che si sia tutti più portati a voler passare più tempo all’aperto. Mentre all’interno non dovrà mancare il wifi per chi decide di dedicarsi una pausa lunga coniugando divertimento e lavoro da remoto».
Insomma, il fenomeno non si ferma. Tanto che da più parti si chiede una regolamentazione più stretta. Tra gennaio e febbraio 2020 erano emerse alcune proposte di legge. Un emendamento al Milleprorghe (poi ritirato) del Partito Democratico aveva posto alcuni paletti: ai Comuni l’obbligo di introdurre la licenza per operare, l’introduzione di un limite sulla durata degli affitti, l’obbligo di possedere la partita Iva per chi affitta più di tre stanze dal momento che la sua sarebbe a tutti gli effetti attività d’impresa.
È finito in un nulla di fatto, con sospiro di sollievo per i property manager, professionisti dell’immobiliare che gestiscono anche centinaia di locali. E che devono passare per Airbnb, Homeaway, Booking, ecc. per far incontrare domanda e offerta – «nonostante un supporto ridotto ai minimi termini».
«La società di cui faccio parte gestisce 20 immobili a Roma e il 2020 si chiuderà con un calo del -80% sul fatturato dello scorso anno. Sono mancati i turisti», afferma Fabrizio Ceschini, professionista del settore.
Per lui, «lo spopolamento è un processo naturale. Oggi il centro storico non è facilmente vivibile dai residenti alle prese con ZTL e mancanza di servizi commerciali. Questo tuttavia non pregiudica che si possano sviluppare altre aree della città. Soprattutto a Roma, dove il territorio è molto vasto».
Ma chi vivrà in centro allora? «Non solo i turisti. Attualmente, il mix dei nostri clienti è composto da chi cerca un soggiorno di medio termine, 1-3 mesi in città. Spesso per motivi legati a lavoro o studio. Lo smart working non impedisce alle persone di muoversi là dove sia necessario avere dei contatti o agire sul territorio; ma molto dipende dalla tipologia di servizi che trova a destinazione. Chi si aspettava che le classiche casa-vacanza divenissero uffici per lo smart working è rimasto a bocca asciutta», conclude Ceschini.