Vengono chiamati “prepper”, o “survivalisti”, anche se in realtà si tratterebbe di due cose diverse. Si tengono preparati per le catastrofi, le alluvioni, i terremoti e gli eventi disastrosi in generale. Anche le pandemie.
Si dice che alcuni, i più estremi, abbiano un bunker in giardino pieno di scorte alimentari, cibo e acqua per affrontare giorni e settimane in isolamento. Sono attrezzati però anche per gli inconvenienti minori, difficoltà di ordine quotidiano, come l’auto che si rompe in mezzo a un bosco. Che si fa in quelle situazioni?
Il “prepping” nasce negli Stati Uniti (secondo alcuni, in realtà, sarebbe nei Paesi nordici, spaventati dalle invasioni sovietiche) e consiste nell’apprendimento di una serie di tecniche, competenze e capacità per sopravvivere agli eventi più catastrofici. Un approccio che parte dalla preparazione, appunto, e passa dalla previsione dei possibili pericoli.
È semplice: «Noi speriamo il meglio e essere pronti al peggio», spiega Enzo Maolucci, uno dei primi ad avere introdotto al disciplina in Italia, nel 1983, presidente della relativa federazione, la Fisss, e voce autorevole nel panorama survivalista italiano.
«All’epoca le prime esercitazioni avevano come oggetto la minaccia post-nucleare», spiega. Erano gli anni finali (ma non si sapeva) della Guerra Fredda, il rischio era alto e così le preoccupazioni. «Avevamo organizzato una gara di sopravvivenza in un bosco in Abruzzo, tre giorni con uno zaino di tre chili e con tre milioni di lire in palio».
Con il tempo sono cambiate molte cose, oltre al conio. Quello che nasceva «come un gioco scaramantico» è diventato una disciplina sempre più seria, fino a creare una associazione. Quasi un lavoro. «Al momento, in Italia, ci sono circa 300 survivalisti professionisti. Poi 3mila o 4mila amatori», per finire con «decine di migliaia di “frequentatori”», ossia tutte le persone che negli anni hanno seguito i corsi organizzati dalla sua o da altre associazioni, «occasioni per imparare a essere autonomi e collaborativi nelle situazioni di pericolo».
Quando si parla di prepping o, più ancora, di survivalismo, l’immagine più ricorrente (dopo i bunker) è quella di Rambo. Individuo solitario, con armi e fascia rossa in testa, che sopravvive benissimo nella giungla e, anzi, riesce a sbarazzarsi di tutti i suoi nemici.
Non è così (se non per qualche gruppo di esaltati). Prima di tutto per questioni giuridiche, il possesso di armi in Italia, a differenza di molte parti degli Stati Uniti, è molto limitato. Come spiega Fabrizio Nannini, fotografo, istruttore di sopravvivenza, esperto di Mental Survival e autore per Hoepli di “Mental survival. Psicologia e tecniche di sopravvivenza mentali per affrontare ogni situazione”, «qui non ci sono arsenali a disposizione. Semmai scorte alimentari, che si acquistano con pazienza quando costano meno e si utilizzano nei momenti in cui occorrono».
E poi perché in realtà la sopravvivenza è «un’attività collettiva, che nasce e funziona attraverso la collaborazione». Il modello perfetto «sono le formiche». Nei suoi corsi, concentrati sull’aspetto mentale – «che è fondamentale, più ancora del possesso delle tecniche giuste» – è possibile «scoprire come ognuno reagisce nei momenti di forte stress. Impara quali siano i suoi limiti, dopo giorni di denutrizione, magari in un clima ostile, in situazioni di incertezza e difficoltà».
Alla fine dell’esperienza «ha una conoscenza di sé maggiore. Sa quali sono le debolezze ed è pronto ad affrontarle, se mai dovessero capitare». La chiave, insomma, è mantenere il controllo ed essere cooperativi».
Per quanto riguarda le tecniche, «si imparano». In realtà non esistono limiti su ciò che può servire. Di sicuro, chi vuole sopravvivere deve saper dare una valutazione dei rischi di una situazione, e non solo per le catastrofi naturali, ma anche sociali: il sistema della società in cui si abita è complesso «e basta un glitch per compromettere un ramo del suo funzionamento».
Per cui alle inondazioni e ai terremoti bisogna aggiungere anche il collasso dello Stato, il crollo dell’economia, la disoccupazione e anche la perdita del lavoro, individuale. Il prepper, insomma, «deve essere informato», pronto, capace di reagire, continua Nannini.
Poi, come è ovvio, ci sono tutte le competenze specifiche: «sapersi orientare, accendere un fuoco con un coltello, seguire le tracce». Alcune tecniche sono di origine militare, altre della falegnameria. Alcuni imparano il mestiere di elettricista, altri ancora hanno qualche rudimento da calzolaio, «per ripararsi le scarpe», e come è ovvio, si ruba tanto dalla medicina, per sapersi cucire le ferite, dare i punti, disinfettarsi, automedicarsi.
E ancora: tutti sanno che una discarica cittadina può essere ricca di strumenti per sopravvivere, una vera miniera. Forse più di un bosco o di un’area naturale – che comunque presentano sempre meno pericoli di quanto si creda.
E qui si torna al caso della macchina rotta in mezzo al bosco. «Se succede, la cosa migliore è stare fermi, pensare a coprirsi e a procurarsi acqua e aspettare i soccorsi». E se non arrivano, meglio «spostarsi seguendo i corsi d’acqua, che vanno sempre verso il basso. Di sicuro, prima o poi, incontreranno un’area abitata. Almeno in Europa. In Africa no. Anzi, seguire l’acqua porta di sicuro a fare brutti incontri con gli animali».
Ogni contesto, insomma, ha la sua soluzione. E non c’è nessuna regola specifica, se non quella «di avere un zaino leggero e una testa gonfia», di idee, si intende.
I prepper e il Covid
Alla fine, dopo tanti preparativi, nel 2020 una catastrofe globale è arrivata davvero. Ma nessuno, garantisce Nannini, «ha ceduto all’antipatica tentazione di dire “Noi ve l’avevamo detto”. Al contrario, sembra che i prepper abbiano evitato di esporsi, anche perché era consigliabile evitare di pubblicizzare, in quei momenti di incertezza, il fatto di avere scorte in casa».
Per Maolucci «il pericolo era noto, da anni gli scienziati aspettavano il Big One, cioè lo spillover che avrebbe diffuso una malattia globale». Era altrettanto ovvio, allora, che i prepper fossero preparati. «In quei casi la cosa migliore, visto che il survivalismo è una disciplina per chi vive in città, è avere a disposizione una casa in campagna, attrezzata, con cui si può provvedere al proprio sostentamento con la terra».
Secondo Alessandro Mastrandrea, fondatore del sito Portale Sopravvivenza, «alcune persone, non prepper credo, ci avevano contattato per avere consigli su quali maschere antigas acquistare, su come si preparano le scorte». Il tutto in un quadro di corse a svuotare i supermercati «per accaparrarsi i beni di prima necessità, cui è seguita una speculazione su Amuchina e mascherine».
Adesso, a suo avviso, «la situazione è difficile da leggere. Le persone (i negazionisti) non riescono a capire l’effettiva gravità del periodo, evocando potenziali violazioni alla libertà individuale». Il problema del Covid non è «affatto risolto».
Ma a preoccupare i prepper, oggi, oltre all’esplosione del supervulcano sotto al parco di Yellowstone e le «classiche questioni idrogeologiche, un evergreen», continua Mastrandrea, «è il rischio di recessione. Molte persone sono state messe in difficoltà dal Covid e dal lockdown, si trovano senza risorse e senza lavoro. Nonostante le proiezioni per il 2021 diano un balzo del 9%, con andamento a V dell’economia, per molti il problema è anche solo arrivarci. Alcuni temono di non riuscirci».
È per questo «che c’è molto interesse per le tematiche di autoproduzione, autosufficienza, di “saper fare”. Una sorta di ritorno alle conoscenze dei nostri genitori e nonni». Un po’ per risparmiare sulle spese, un po’ per guadagnare tempo: «se perdo il lavoro ma so di non dovermi preoccupare nell’immediato di pagare le bollette, mettere un piatto in tavola e mantenere la famiglia, posso dedicarmi alla ricerca di una nuova fonte di reddito».
Ma la paura è alta, «anche se il versante sicurezza, a mio avviso una questione farlocca, tiene banco nelle discussioni dei prepper». Invece l’instabilità economica «può presentare anche problemi sociali, come sommosse, rivolte, rabbia diffusa. Un’economia in recessione genera ahimè effetti anche diffusi dei quali è difficile avere anche una minima idea concreta».
Il collasso dello Stato, senza governo, senza guida, è il worst case scenario anche per Maolucci. «Una sorta di 8 settembre: mio padre lo ricorda bene, era il caos assoluto». Solo che oggi avrebbe effetti anche peggiori, «perché le persone non sono più autonome come allora, non sanno badare a se stesse in assenza di un sistema che li sostenga». Colpa dei cambiamenti di una società «che ha paura che il bambino si faccia male, addirittura che si sporchi anche solo giocando». Il risultato è che nessuno sa fare più niente «e i bambini hanno paura di tutto». Come dargli torto.
Il prepping è l’umanità
Eppure nel prepping e soprattutto nella capacità di sopravvivenza si intravedono i tratti più specifici dell’essere umano e della sua evoluzione. Come spiega il professore e antropologo Alberto Salza, che con Maolucci ha pubblicato, sempre per Hoepli, “Prepping. Come prepararsi alle catastrofi metropolitane”, le tecniche apprese dall’uomo nell’antichità, e che tornano buone nei corsi di sopravvivenza attuali, sono sempre le stesse. «Accensione del fuoco e costruzione di utensili e ripari». Ma non solo: proprio come allora «l’Homo Sapiens di oggi può utilizzare meccanismi basali profondi che derivano dal processo evolutivo: la strategia combatti-o-fuggi (rapida) [che è identificata con il survivalismo], e quella fermati-e-pianifica (a lungo termine) [più simile al prepping]».
E ancora: «Un’altra caratteristica mediata dall’evoluzione è la capacita richiesta al survivalista di ex-attare, cioè di recuperare a nuove funzioni elementi prima inutili». Tradotto: «Come esempio possiamo prendere la riconversione di un handicap (la stazione eretta in foresta) in un meccanismo di mobilità del tutto innovativo in ambienti aperti, con il bonus di poter sviluppare fisicamente un cranio più grande per contenere un cervello in espansione fisica e psichica».
Ottimo. E mutatis mutandis vale anche per oggi, visto che «il survivalista è in grado di recuperare dall’ambiente tutto ciò che gli serve per rimanere vivo, soprattutto utilizzando creativamente gli scarti (le discariche sono un supermarket in caso di catastrofe urbana), o i comportamenti contro-intuitivi, come accendere attorno a sé un fuoco in un incendio boschivo, onde avere uno spazio libero da materiale combustibile ed esser quindi bypassati dalle fiamme (tecnica che ho appreso durante la mia lunga permanenza tra i boscimani del Kalahari)».
Ma forse il punto vero è un altro, ed è la fantasia. «L’Homo Sapiens di oggi è il frutto della realtà virtuale: il pensiero, il sogno, la capacità di pianificare, la visione del futuro, tutto ciò non è reale». Ma nel suo essere astratto, la progettualità – osservazione, calcolo, previsione, azione – è ciò che ha reso umano l’uomo. «Mi immagino gli anziani che scrollavano il capo nelle caverne, dicendo ai nuovi mostri sognanti: “Cosa stai lì a rimuginare? Pensi? Pianifichi? Ma vai a cacciare, piuttosto, che ti rendi utile!”.
Ma la verità, continua Salza, è che «la virtualità è stato l’ambiente innovativo per l’evoluzione dei comportamenti; non ci deve quindi spaventare la realtà virtuale 2.0. Per questo il survival – e ancor di più il prepping – si muovono nel regno della simulazione, che è realtà aumentata, non vaghezza».
Saperlo fare è importante. E lo si è visto, purtroppo, anche nei problemi incontrati nell’affrontare la crisi del coronavirus: «Per esempio, la procedura standard in un incendio è: circoscrivere le fiamme, attrezzarsi con una qualche protezione (tute d’amianto per i pompieri o coperte bagnate per gli improvvisati soccorritori), e poi cercare di salvare le persone. Se prendete la nostra reazione alla attuale pandemia, si vede che abbiamo fatto all’incontrario, innescando la catastrofe».